Grazie Lino!
Per la sua dedizione e per il suo impegno, GRAZIE!!
I biglietti vincenti della lotteria
Le ferite del Signore, sigillo eterno d’amore
«La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati». Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Didimo,
non era con loro quando venne Gesù ....» (Giovanni 20,29)
Spero sia stata solo una dimenticanza o la solita abitudine di non conteggiare le donne nel novero dei presenti, ma non posso immaginare il ritorno di Gesù senza un primo, speciale e privilegiato abbraccio alla mamma, presente anch’essa con i discepoli come raccontano gli Atti degli Apostoli (At 1,14). O forse, come ipotizza don Tonino Bello, Maria fu testimone diretta della resurrezione durante quella notte misteriosa, la prima a posare gli occhi sulla definitiva capriola della storia, quando la vita prese il sopravvento sulla morte. Come i suoi occhi furono i primi a posarsi sul Dio fatto uomo, così i suoi occhi si inumidirono e brillarono nel vedere il Figlio svegliarsi dalla morte: lei l’unica a vedere morire la morte. «Gli altri furono testimoni del Risorto. Lei della Resurrezione» (T. Bello). Gli altri, sì, ma tra loro non c’era Tommaso che immagino come un bambino ipercinetico che non riesce a star fermo e deve trovarsi qualcosa da fare, muovere le gambe per distogliere il pensiero. Se ne era uscito Tommaso quel giorno, forse mandato proprio dagli altri ad annusare l’aria di Gerusalemme dopo tutto quel che era successo. Non c’era Tommaso quando le porte nemmeno si aprirono, quando nessuna maniglia cigolò e comparve il Maestro. Ci sarà stato un sorriso sulle Sue labbra nel rivederli, e i Suoi occhi scherzosamente li avranno accarezzati mentre diceva: “Sono vivo, sono tornato per non andarmene mai più. State calmi, io ci sono”. E al rientro Tommaso non capisce tutta quell’euforia, quegli occhi lucidi di pianto ed allegria: “Il Signore… è venuto qua… è vivo…” Quanto mi assomigli Tommaso nel bisogno che hai di constatare, di verificare, di accertarti che tutto sia proprio così; quanto mi assomigli nel voler mettere il dito nella piaga, a costo di far ancora soffrire, testardo e ostinato, ma poi talmente innamorato da riconoscere che il tuo è un Dio ferito e vivo. Non rinuncia il Signore alle sue ferite, se le porta nell’eterno della sua vita come una carta d’identità, come sigillo del suo amore. Si lascia toccare perché lo sa, Lui lo sa bene che la vita, quella vera, va toccata proprio là dove è nata: nelle fessure dove circola il tempo e l’infinito. Il nostro papa Francesco ha raggiunto il Risorto, ora lo vede: a lui il mio grazie per il suo andare a cuore aperto, per la leggerezza della sua serietà, per i gesti così naturali e il suo saper aspettare con cuore di bambino. Grazie Francesco, anche se resterà di te solo un canto di allodola nella notte, sarà speranza e coraggio per chi lo avrà ascoltato. Semplicemente grazie.
© don Luigi Verdi / avvenire.it
Quella notte già alba del Risorto con Maria
Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti. . (Giovanni 20,1-9 )
Che strana notte, che notte magica deve essere stata: notte come quella della prima creazione, quando apparve il primo timido raggio di sole e la luce irruppe poi nel cielo. Notte come quella vissuta dagli Israeliti in fuga dal faraone tiranno, che videro il mare squarciarsi in due e il fondo del mare diventare la passerella verso la salvezza. Notte come quella dei pastori che, sdraiati sull’erba umida, ascoltarono un messaggio inaudito: «Vi è nato un Bambino…». La notte, forse, ci è amica. E Maria si avvia che è ancora buio là, al sepolcro, con nel cuore l’angoscia di aver perso per sempre colui che ama. Tra un po’ sarà l’alba: ora c’è ancora la rugiada sui fili d’erba, ora il sole ancora sembra nascosto. Oppressa dal dolore, con gli occhi bagnati dalle lacrime e dalla stanchezza per aver preparato tutta la notte i profumi, Maria sussulta nel vedere la pietra rotolata: hanno portato via il Suo corpo, ora non avrà più neanche una tomba su cui piangere. Non lo sa ancora, forse non se ne accorge che la notte è passata e che in questa notte, nel silenzio, è successo qualcosa di così inverosimile che anche la terra sembra sgomenta e se ne sta incredula e muta. Per noi, come per Pietro e gli apostoli che se ne stanno chiusi in casa impauriti, la morte mette sempre la parola fine. Restiamo fermi: tutto è finito, chiuso, concluso: cos’altro sperare, cos’altro aspettare? Restiamo fermi nel buio, nella notte, con la disperazione della fine. Ma questa è la notte, anzi è già l’alba, in cui i piedi di Maria corrono veloci ad annunciare l’inspiegabile, in cui i piedi di Giovanni e di Pietro si graffiano per portarli a «vedere» e a «credere». Questa è la notte, anzi è già alba, in cui il tempo e l’eternità si abbracciano. Oggi, passata la notte, è solo vita: quel che sembrava finito con la morte ha un nuovo inizio, il libro che sembrava chiuso si riapre di nuovo: ancora vita. «Perché cercate tra i morti colui che è vivo?» Vivo. E ti dico: «Sono risorto per ricordarti che la speranza è un filo sottile che regge il mondo e che la fiducia è chiudere gli occhi nella notte. Ancora il Suo soffio ti darà vita. E sarà per sempre»
© don Luigi Verdi / avvenire.it
Dio, fragile nell’amore, ma forte nella vittoria
… Era già verso mezzogiorno e si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio, perché il sole si era eclissato. Il velo del tempio si squarciò a metà. Gesù, gridando a gran voce, disse: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito». Detto questo, spirò.Visto ciò che era accaduto, il centurione dava gloria a Dio dicendo: «Veramente quest’uomo era giusto». Così pure tutta la folla che era venuta a vedere questo spettacolo, ripensando a quanto era accaduto, se ne tornava battendosi il petto. (Luca 22,14-23,56)
Ce lo ha fatto capire fin dal principio, quando ha scelto di venire sulla terra non bardato di corazze e fulmini, ma nascosto nella tenera pelle di un bambino, profumata di latte e carezze. Ce lo ha dimostrato in tutta la sua vita, quando ha avuto sonno, sete, fame e stanchezza; quando ha provato il bisogno di appoggiarsi agli amici, quando non è riuscito a frenare le lacrime dinanzi all’amico morto o sulla città che lo avrebbe ucciso e quando ha avvertito l’ombra gelida della morte. Non è mai stato freddo e imperturbabile, non ci ha mai dato l’immagine di un Dio spavaldo, a cui non trema il cuore, ma di un Padre che corre incontro “commosso” al figlio che credeva perduto. Un Dio capace di piangere, un Dio fragile. Fragile fino alla morte. La chiamano Passione di Gesù: nella nostra lingua il termine passione significa anche inclinazione, trasporto, desiderio, afflizione e intensa sofferenza. Tutti significati che stanno qua, in queste pagine di vangelo che ci parlano di un Dio così appassionato da morire scusando, che è più che perdonare: “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno”; un Dio così appassionato che continua a voler bene ai suoi amici nonostante i tradimenti e l’abbandono; un Dio che fa di un brigante il primo e sicuro santo della Chiesa. Forse è proprio l’amore che lo rende così fragile. In tutto il suo processo, celebrato con l’accusa di essere un agitatore politico, non si difende, questo Dio fragile, Lui non alza la voce, “Era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori…” (Is.53,7) e ai suoi amici, per ritrovarlo, non lascia che un pezzetto di pane e un sorso di vino ed un consiglio: “Chi tra voi è più grande diventi come il più giovane, e chi governa come colui che serve.” Lui che ha benedetto ciò che tutti temono, la povertà, la fame, la sete, le lacrime; Lui che ha amato ciò che il resto del mondo disprezza; Lui che si è scagliato contro l’ingiustizia e il potere che rende schiavi, oggi sembra sopportare tutto questo, come uno qualunque, come uno di noi, come l’ultimo di noi. Un Dio difficile da accettare oggi, un Dio che scandalizza: troppo debole, troppo uguale a noi, così fragile da morire. E se a noi viene da chiederci “Dove sei Dio?” anche Lui, nel momento più duro, ha gridato:“…Perché mi hai abbandonato?” Un Dio abbandonato da Dio è scandaloso per chi crede che si vince solo trionfando o affermando prepotentemente la propria verità, calpestando con la violenza il più debole; per quelli che credono in un Dio che mette la legge al di sopra dell’amore, in un Dio immobile, impenetrabile, che fa paura. “Si fece buio su tutta la terra…il velo del tempio si squarciò…”. Fragile da morire è il nostro Dio, oggi, ma Lui sa che il trionfo definitivo sarà della vita che esploderà, nonostante i sepolcri sigillati, nonostante i soldati di guardia. Sarà una vibrazione d’amore, quello stesso amore che lo ha reso così fragile.
© don Luigi Verdi / avvenire.it
Vedere gli altri così come Dio li ha sognati
… Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più». (Gv 8,1-11 )
Quanto darei per sapere cosa stava scrivendo Gesù: una preghiera o il verso di una poesia o di una canzone? O il versetto di un salmo, forse proprio quello del salmo 125 che è tra le letture di oggi: « …la nostra bocca si riempì di sorriso, la nostra lingua di gioia». Quanto pesano le pietre di chi si sente senza peccato, di chi suppone di essere giusto, sempre a posto con la coscienza? Quanto pesano quelle pietre che siamo incessantemente pronti a scagliare sulle debolezze e fragilità di chi ci sta intorno? E se questa scena si ripetesse oggi, qua, nel piccolo mondo in cui vivo, io dove sarei? Sarei insieme a quegli scribi a reclamare l’applicazione della legge? È così facile e comodo alzare la mano e tirare macigni contro chi sbaglia; si fa così presto ad emanare condanne, a sottolineare spietatamente l’errore dell’altro. Facile, comodo pensarsi nel giusto e credere che la propria posizione sia sempre quella inattaccabile, assolutamente valida per tutti. Con un cuore duro, come le pietre. Per un attimo, solo per un attimo, vorrei potermi mettere nei panni di quella donna, vorrei poter avvertire i brividi che le corrono lungo la schiena per una condanna già scontata; la vergogna di stare là al centro, guardata da occhi impietosi, freddi come ghiaccio, a tremare di terrore, a tremare bucata da quegli sguardi carichi di rimproveri. Già lapidata, già uccisa dal giudizio. Vorrei alzare gli occhi e incrociare lo sguardo di Gesù, che si è “chinato” verso di me: è al mio livello, non mi guarda dall’alto in basso, scrive qualcosa e mi guarda. E sono occhi buoni. Sono occhi che non mi giudicano, ma mi abbracciano, mi sciolgono la colpa, mi restituiscono la dignità. Mi sembra di volare, abbracciata a quello sguardo che ha fatto scomparire il mio peccato, perdonata perché amata. Ci vuole amore per perdonare e nei suoi occhi vedo quell’amore sconfinare oltre i miei sbagli, oltre tutti i giudizi. Mi ha liberata. “Va’ e non peccare più” mi ha detto: come vento ha soffiato nelle mie vele e strappato le zavorre, ora posso navigare verso il largo, sì, “ha riempito la mia bocca di sorriso, la mia lingua di gioia…” E per un attimo, solo per un attimo, vorrei avere gli occhi di Gesù, capaci di vedere l’altro come Dio lo ha sognato, capaci di scovare le radici dei fili d’erba, la sorgente d’acqua pulita che scorre in ognuno, la nostra eredità di figli di un Dio tenero e gentile. Pronto sempre a chinarsi e a far nascere sorrisi e gioia.
© don Luigi Verdi / avvenire.it
Un Padre che non smette mai di accoglierci
Disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato”. Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò ...». (Luca 15,1-3.11-32 )
Ci sono storie che si ripetono, storie di famiglie che rappresentano un po’ ogni famiglia, storie di porte sbattute, di silenzi pesanti, a volte di grida di insofferenza, di mormorii tra fratelli e sorelle, di dolori trattenuti. Oggi Gesù ce ne racconta una per dirci di un padre, quello sì, un po’ particolare. Istintivamente mi immedesimo nel figlio minore, quel ragazzo spavaldo, forse superbo, che con fare sprezzante si rivolge al padre chiedendogli la sua parte di eredità e che va via sbattendo la porta di casa. Petto gonfio, a passi decisi, mi avvio verso la libertà. Forse tiro pure un sospiro di sollievo. Mi sento un sogno in volo: cosa cerco? Cosa mi aspetto? Feste, risate, avventure e piaceri infiniti, «sogni di gloria» insomma. Nulla può fermarmi, sono padrone del mondo, finalmente. Non penso a mio padre, che senza fiatare mi ha guardato allontanare: cosa avrà provato sentendo i miei passi lontani? Il suo cuore di quanto si sarà gonfiato? Non voglio pensarci, oggi ci sono solo io e voglio godermela. E Lui aspetta, quel Padre che non smette mai di essere padre, aspetta sperando, sempre sul terrazzo di casa, caso mai torni. I giorni passano e il vestito lussuoso è diventato un cencio, non ho più uno spicciolo e gli amici, quelli con i quali ho brindato, mi hanno lasciato solo. Ho fame mentre là, a casa mia, persino i servi mangiano in abbondanza. La fame di un pezzo di pane mi muove, non l’amore. «Mi alzerò... andrò... gli dirò...» il futuro è già presente, il ragazzo ha capito. È bastata la fame, è bastato sentire i morsi di un paradiso non artificiale, i morsi dell’infinito. Ed eccolo che a passi svelti, si incammina: forse tra sé e sé ripete le parole da dire al padre, parole di scusa, di vergogna. Non ne ha il tempo: vede il Padre che gli corre incontro, le sue braccia lo stringono forte, forse proprio per non farlo parlare, i due cuori si toccano. Finalmente sei tornato. Così è Dio, il Dio del «Che bello!», il Dio della festa. Peccato che arrivi il fratello maggiore, quello sempre troppo fedele, sempre perfetto, sempre giusto, quell’insopportabile sapientone al quale, solo ora, mi scopro di assomigliare. Ma Lui, il Padre, non si lascia rovinare la festa, Lui «beveva, cantava, rideva. Quei rimproveri non li ha neanche sentiti. Era un tipo d’uomo particolare: sentiva solo la gioia; per il resto, era sordo»
© don Luigi Verdi / avvenire.it
