Prenderci cura di tutti, perché Dio ama ognuno
Stabilisce confini oggi Gesù, delimita spazi di senso, posture esistenziali: di qua le pecore di là i lupi, di qua i pastori di là i mercenari, come dire i guardiani a pagamento. O sei l’uno o sei l’altro, senza compromessi, senza mezzi termini. Dall’appartenenza a uno di questi campi scaturiscono le scelte, quelle autentiche, quelle che possono costare la vita. Sei tra quelli che scappa a gambe levate lasciando le pecore tra le mascelle del lupo, facendole sbranare perché tanto “che me ne importa?”. O sei il pastore che le difende, che si mette come scudo tra le sue pecore e il pericolo, rischiando lui stesso e per primo il morso dei lupi? Mi domando quanti tra tutti coloro che hanno compiti di guida siano disposti a tanto. Papa Francesco direbbe: “Ci stai a tal punto con loro che ti porti addosso l’odore delle pecore?” Che è come dire “sei indifferente o ti prendi davvero cura di coloro che ti sono stati affidati?” E nel mondo di Dio, nel suo regno, ogni fratello e sorella mi è affidato. La differenza è tutta là, se me ne importa o non me importa: e così scopriamo che, nel mondo di Dio, ognuno di noi è importante, unico e insostituibile, proprio singolarmente, proprio io in quanto io, Luigi; perché Lui, il pastore, sa anche il mio nome. E il tuo. Di me, di te gli importa tanto da mettersi a correre se mi sperdo nei dirupi; di me, di te non può fare a meno, non si consola con le altre novantanove: io gli manco. “Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri” (Is 40,11): più volte nella Bibbia ricorre questa immagine del pastore, ma oggi Gesù si spinge oltre, fino al limite estremo, fino al “dare la vita”, ripetendolo allo sfinimento. Buono e bello nella traduzione greca coincidono, si indicano con lo stesso termine, kalòs: oggi allora, quando Gesù afferma “io sono il buon pastore”, è come se ci dicesse anche “io sono il pastore bello” di quella bellezza che ci fa venire i brividi, che ci lascia a bocca aperta e col fiato mozzato; la bellezza del donarsi, la stessa di quando l’innamorato dona un fiore alla sua amata, o di quando la mamma offre il seno al suo bambino. Oggi ci dice Gesù: “Ti dò tutto di me fino a confondermi con te, a scegliere di nascere e morire, come te, per te”. Nel mondo di Dio la bellezza è questa, è un amore esagerato per me, per te che altro non siamo che agnellini sul suo petto, ad ascoltare il battito del suo cuore. “Ecco io carezzo la vita, perché profuma di Te” (Rumi): una vita sovrabbondante e inesauribile, la vita di Dio. Luigi Verdi /Avvenire.it
Gesù Risorto «sconfigge» l’incredulità dei discepoli
Così fa Dio, appare e scompare, si rende visibile e invisibile, tace e ci accarezza con la sua voce impercettibile. La Risurrezione di Gesù ci fa fare dei salti impensati, ci spinge a conciliare gli opposti: morte e vita, carne e spirito, paura e certezza, tristezza e gioia. Quanti sbalzi di umore, quanti scossoni per quei poveri discepoli che forse avrebbero preferito restarsene rassegnati a piangere: era stato così facile credere alla morte del loro maestro, ora è invece così difficile credere alla vita. Molto più facile sbalordirsi di fronte a un fantasma piuttosto che al ritorno in vita di Gesù: eppure tra loro c’erano anche quei due che lo avevano appena incontrato là ad Emmaus. A noi, che oggi leggiamo, sembra impossibile che pure loro fossero “sconvolti e pieni paura” nel vedere Gesù lì in mezzo, arrivato all’improvviso, arrivato come al solito senza far rumore. Così fa Dio, torna e non si mette in trono, parla e non rimprovera, ma placa i cuori agitati. E ancora una volta mostra i propri documenti di identità, le sue ferite: “Guardate, toccate, sono io in carne e ossa…” Non un fantasma, non un bel ricordo su cui piangere, ma vivo, tanto vivo da voler mangiare, insieme a loro. Forse aveva desiderato che i suoi, nel vederlo, gli fossero saltati al collo e lo avessero abbracciato stretto stretto; forse si aspettava un’accoglienza più festosa, non un misto di tristezza e di paura e quell’incapacità di abbandonarsi alla gioia; forse avrebbe voluto vedere volti rigati da lacrime di felicità e non visi spaventati e dubbiosi. Sarebbe stato bello vederli, come bambini, tuffarsi nel mare della vita. Ma Lui ricomincia sempre da capo, così fa Dio. E di nuovo a spiegare che proprio così doveva accadere, che quando si ama si ama sul serio, “sino alla fine” (Gv.13,1) e che questo folle amore di Dio riesce a oltrepassare ogni confine, perfino quello definitivo messo dalla morte. Di questo saranno “testimoni” i suoi discepoli, noi compresi. Testimone è non solo chi viene chiamato ad affermare qualcosa che ha visto o ascoltato; testimone è anche quel pezzetto di legno che i corridori di una staffetta si passano di mano in mano, di corsa, tra sudore e fatica. Chissà, forse siamo chiamati ad essere proprio quel bastoncino che corre veloce nelle mani di Dio. Allora, cerchiamo Gesù là dove è apparso da risorto, nei posti umili come la strada, la casa, il giardino, la sponda del mare. Proviamo il fremito che ci dà il ritrovarlo, cerchiamo di sentire il nostro cuore battere all’impazzata perché è tornato; piangiamo di gioia nell’ascoltare le parole che sussurra a noi confusi e disorientati, con il cuore sempre vagabondo tra dubbio, stupore e gioia. Luigi Verdi /Avvenire.it
Auguri pasquali
A tutti voi, cari fedeli e amici, arrivi il mio più sincero augurio di buona Pasqua. La luce di Cristo Risorto possa illuminare la vostra vita e condurvi sempre a scelte orientate al bene, a relazioni che creano comunione, a parole pronunciate per evidenziare il bello che c’è in ognuno di noi. In un mondo segnato da tanta violenza e crudeltà amplificata dai mass-media come cristiani siamo chiamati a diventare riflesso dell’amore di Dio. Diventiamo annunciatori di pace, esercitiamo il più possibile l’arte del perdono, ripartiamo insieme per una vita più dignitosa, rispettosa e solidale. Un ricordo speciale in questa Pasqua agli anziani e agli ammalati spesso soli in casa e a tutti coloro che in queste feste saranno comunque impegnati per il lavoro.
Ai miei auguri si unisce anche don Antonio Salvalaio dalla Casa del Clero e tutti i preti originari impegnati in missione o in altre sedi della chiesa universale. Anche questo è un segno della generosità della nostra terra e della comunione tra chiese sorelle.
A tutti un augurio di Santa Pasqua.
Don Daniele Vettor
L’odore della vita
Pasqua è il tema più arduo e bello di tutta la Bibbia. Arduo perché va contro ogni evidenza, bello perché rotola via i massi dall’imboccatura del cuore. Pasqua non porta solo la salvezza che ci estrae dalle acque limacciose, ma la redenzione, che è molto di più, che trasforma la debolezza in forza, la maledizione in benedizione, il rinnegamento di Pietro in atto di fede, il mio difetto in energia nuova, la mia fuga in corsa intrepida. Maria di Magdala esce di casa avvolta nel buio, del cielo e del cuore. Non ha niente tra le mani, non aromi come le altre donne, ha soltanto il suo amore impastato al dolore, che si ribella all'assenza di Gesù. “E vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro”. Nel fresco dell'alba il sepolcro è spalancato, vuoto e risplendente, affacciato sulla primavera. Un sepolcro aperto come il guscio di un seme, che prima di posarsi ha imparato a volare. Maria corse da Simone e dall’altro discepolo, che Gesù amava... correvano insieme Pietro e Giovanni. Perché tutti corrono in quel mattino di Pasqua? Perché tutto ciò che riguarda Gesù non sopporta mezze misure, e si merita tutta la fretta dell’amore, che è sempre in ritardo sulla fame di abbracci. Corrono perché hanno ansia di luce che sia vita. L’altro discepolo, quello che Gesù amava, corse più veloce. Giovanni arriva prima di Pietro a capire il senso della risurrezione, e a crederci. Il discepolo amato ha «intelletto d’amore» (Dante), l’intelligenza del cuore. Chi ama capisce di più, capisce prima, capisce più a fondo. Infatti i sapienti camminano, i giusti corrono ma solo gli innamorati volano. Vide i teli posati là. Giovanni entrò, vide e credette. Anche di Pietro è detto che vide, ma non che credette. Giovanni crede perché i segni sono eloquenti solo per il cuore che sa leggerli, e il suo brucia la distanza tra Gerusalemme e il giardino, tra i segni e il loro significato, tra i teli posati là e il corpo assente. È pronto alla fede perché si sa amato: «ti vedrò nell’amore avuto e dato./ Ma se altro è il tuo cielo/ non ti vedrò Signore» (C. Cremonesi). Il primo segno di Pasqua è il corpo assente. Nella storia umana manca un corpo, per pareggiare il conto degli uccisi. Ma Gesù non è semplicemente il Risorto, non è l'attore di un evento che si è consumato una volta per tutte nel giardino di fronte Gerusalemme. Pasqua non è conclusa. Se noi tutti formiamo il corpo di Cristo, allora come mi è contemporanea la croce, così lo è anche la Risurrezione. Chi vive in lui, è lui com-preso, cioè preso-dentro il suo risorgere. Pasqua solleva allora questo nostro pianeta di tombe verso un mondo dove il male non vince, dove il carnefice non ha ragione della sua vittima in eterno, dove le piaghe della vita possono distillare luce. Pasqua: “Il buon profumo di Cristo è odore di vita per la vita” ( 2 Cor 2,16).
Uscita centro ricreativo Giovanni XXIII
Il Centro ricreativo Giovanni XXIII APS organizza una gita lungo la ciclabile Borghetto - Mantova e visita al Museo storico dei Vigili del Fuoco il 25 aprile 2024.
Partenza ore 7.30 in autobus con carrello bici, occhiali da sole, cappello e pranzo al sacco.
Info e iscrizioni entro il 7 aprile al numero 3405825799
L’abbandonato s’abbandona
Ecco l’uomo! Appare al balcone dell’universo il volto di Gesù intriso di sangue. Il dolore sotto cui vacilla è quello di tutti noi, lungo le strade contorte della vita, nei sentieri indifesi della storia dell’uomo. Eccolo, il Figlio di Dio! Ciò che vediamo non è lo splendore dell’onnipotente, ma il patire di un Dio appassionato. "Dio prima patì e poi si incarnò. Caritas est passio. L’amore è passione e patimento" (Origene). "E chi ama di più si prepari a patire di più" (santo Agostino). Cosa ha visto in quella morte di così diverso? Non dei prodigi, non l’annuncio della risurrezione. L’esperto di morte, in quella morte diversa, ha visto Dio. Un Dio capovolto, che non sacrifica nessuno, sacrifica se stesso, non spezza nessuno, spezza se stesso. Ha visto che il cuore della passione del Nazareno era una passione per Dio e per l’uomo. Morire così è cosa soloda Dio, la sua rivelazione. “Scendi dalla croce!” gridavano. Ma se scende, non è più il nostro Dio, torna a prevalere la solita logica umana che fa vincere il più forte. E il soldato invece vede oltre; capisce che solo Dio non scende dal legno, che solo Lui si consegna alla Notte passando dall’abbandono “di” Dio («perché mi hai abbandonato?») all’abbandono “a” Dio («nelle tue mani...»), rappresentandoci tutti nei nostri dolori. Vede il supremo potere che si disarma, dando vita e perdono a chi dà la morte, vede la violenza annullata perché presa su di sé. Ha visto che questa nostra storia partorisce un’altra storia; che questo mondo porta un altro mondo nel grembo. Io so che non capirò mai la croce, l’uomo non regge questo amore troppo limpido; ma Dio non è venuto perché lo capissimo, ma perché ci aggrappassimo a Lui, alla sua croce, lasciandoci sollevare in alto, nella risurrezione. La fede è abbandonarsi all’abbandonato amore. La suprema bellezza della storia è quella accaduta fuori Gerusalemme, su quella piccola collina, dove il Figlio del Dio infinito si lascia inchiodare a un pezzo di legno, grande appena quanto basta per morirvi. Come è stato per le donne, anche la mia fede poggia salda sulle mura più forti del mondo: un atto d'amore perfetto.
Notizie dall’Ecuador
Ricordiamo l’anniversario dei 50 anni di Missione in Ecuador di Carla Sbeghen. Questa nostra conterranea ha donato la sua vita alla missione con grande passione e generosità. Ringraziamo il Signore per la testimonianza di fede e di servizio che Carla ci ha regalato. A lei gli auguri più sentiti per questo traguardo e il ricordo nella preghiera perché possa rimanere in salute.
Feconda solitudine
“Vogliamo vedere Gesù”. Domanda forte di greci, di giudei, di uomini d'oggi, dell'uomo di sempre. Come rispondere? Gesù stesso offre le parole e le immagini: chicco di grano, croce, strada. E, sempre, come tela di fondo, la nostra terra, che è il vero cielo di Dio, con i suoi poveri affamati di giustizia, e i figli in ansia di luce. “Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore produce molto frutto”. Frase pericolosa come poche, se capita male, e vedo che l’accento dell’espressione non va a posarsi sul finire o sul morire, ma sul molto frutto... L’interesse del vangelo, l’obiettivo della creazione, è la fecondità. Il seme germoglia chiamato dalla spiga futura, muore alla sua forma ma rinasce in quella di germe, e poi tutto evolve verso più vita: la gemma in fiore, il fiore in frutto, il frutto in pane. Mi porto dentro un seme di vita che contiene molte più energie di quanto non appaia. Ma le possiede quando le dona. Allora il fragile chicco muore sì, anche di paura, ma la vita gli si trasforma in una forma più evoluta e potente. “Quello che il bruco chiama fine del mondo tutti gli altri chiamano farfalla” (Lao Tze), perché non striscia più ma vola; muore alla vita di prima per vivere in una forma più alta. Gloria di Dio è solo la fioritura dell’essere (R. Guardini) e la sua fecondità, e quello che le innesca, il detonatore, è il dono di sé. La chiave di volta che regge il mondo, dal seme a Cristo: non la vittoria del più forte ma il dono. Fino in fondo, fino all’estremo, oltre il limite, come mostra la 2a immagine del dittico di Gesù: la croce. Quando sarò innalzato attirerò tutti a me. Dalla croce sento erompere una attrazione universale, una forza di gravità celeste: lì è l'immagine più pura e più alta che Dio dà di se stesso. Cosa mi attira del Crocifisso? Che cosa mi seduce? La bellezza dell’atto d’amore! Bello è chi ti ama, bellissimo chi ti ama fino all’estremo. Il crocifisso coperto di sangue e sputi non è bello, ma è la figura di una realtà bella: un amore fino a morirne. La realtà imbruttita di quel corpo straziato, è il riflesso più bello della cosa più bella di Dio, la sua follìa d’amore. Suprema bellezza è quella accaduta fuori Gerusalemme, sulla collina, dove il Figlio del Dio infinito si è lasciato contenere nell’infinitamente piccolo, quel poco di legno e di terra che basta per morire. "A un Dio umile non ci si abitua mai" (papa Francesco). Il Dio di Gesù, un Dio capovolto, scompiglia le nostre immagini ancestrali con un chicco e una croce, l'umile seme e l'estremo abbassamento.
La maschera dell’Angelo
Si è appena spenta la scena irruente di Gesù che scaccia i mercanti dal tempio, e a Gerusalemme capi e gente comune ancora parlano di quel giovane rabbi. Ora, da quella scena clamorosa e sovversiva, si passa a un vangelo intimo e raccolto. Nicodemo ha grande stima di Gesù e vuole capire di più, ma non osa compromettersi, così si reca da lui di notte. La luce è venuta nel mondo ma gli uomini hanno preferito le tenebre. Nicodemo non capisce. Anch’io non capisco. Da dove viene questo dramma del preferire le tenebre? Da dove il tremendo fascino del nulla? So di poter dire, con l'eco che hanno le cose grandi: i tuoi figli, Signore, non sono cattivi, sono fragili, si ingannano facilmente. Preferiscono le tenebre perché l'angelo delle tenebre è menzogna, e si maschera da angelo della luce. Promette felicità e libertà, e seduce, perché l'uomo va dove il suo cuore gli dice che troverà la felicità. E che sono inganni / lo so, e tutti e due sappiamo / che non potrò / non ingannarmi ancora (Turoldo). Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio, perché chiunque crede non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Siamo al versetto centrale del vangelo di Giovanni, il versetto dello stupore che rinasce ogni volta per parole buone come il miele, tonificanti come una camminata in riva al mare fra spruzzi d’onde e aria buona respirata a pieni polmoni: Dio ha tanto amato il mondo. Versetto decisivo, centro del vangelo di Giovanni, parole da riassaporare ogni giorno e alle quali aggrapparci forte nell’ultimo passaggio: ha tanto amato da dare suo Figlio. A queste parole la notte di Nicodemo si illumina. E le nostre notti. Qui possiamo rinascere. Ogni giorno. Alla fiducia, alla speranza, alla serena pace, alla voglia di amare, di vivere, di custodire e coltivare persone e cose, e ogni più piccolo giardino di Dio. La rivelazione di Gesù: Dio ha considerato il mondo, ogni uomo, più importante di se stesso. Per acquistare me ha perduto se stesso. Follia d’amore. Se Egli ha amato il mondo e non solo noi, il mondo con la sua bellezza fragile, allora anche tu amerai il creato come te stesso, lo amerai come il prossimo tuo: «mio prossimo è tutto ciò che vive» (Gandhi). Perché il mondo sia salvato: salvare vuol dire conservare, e nulla andrà perduto, non un sospiro, non una lacrima, non un filo d'erba; non va perduta nessuna generosa fatica, nessuna dolorosa pazienza, nessun gesto di cura per quanto piccolo e nascosto: Se potrò impedire a un Cuore di spezzarsi, non avrò vissuto invano. Se potrò alleviare il Dolore di una Vita, o aiutare un pettirosso caduto a rientrare nel suo nido non avrò vissuto invano. (Emily Dickinson). Dio ha tanto amato, e noi con Lui siamo chiamati non a salvare il mondo, ma a salvarlo, non a convertire le persone, ma ad amarle. Se non per sempre, almeno per oggi; se non tanto, almeno un po'. E fare così, perché così fa Dio. Il vero ateo non è chi non crede, ma chi non ama.
Dai sassi la vita
Gesù stava con loro... Impariamo con lui a stare lì, a guardarle in faccia, le nostre belve. A nominarle. Non le devi né ignorare né temere, non le devi neppure uccidere, ma dar loro un nome, e poi una direzione. Lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e vi rimase quaranta giorni, tentato da Satana. La tentazione? Una scelta tra due amori, scegliere la stella polare. Le tentazioni non si evitano, si attraversano. Gesù inizia dal deserto: dalla sete, dalla solitudine, dal silenzio delle interminabili notti. “Que sueno el de la vita: sobre aquel abiso petreo!” Che sogno quello della vita e sopra quale abisso di pietre (Miguel de Unamuno). In questo luogo simbolico Gesù gioca la partita decisiva, quale vita sognare e vivere. Che Messia sarà? Venuto per prendere, salire, comandare, oppure per scendere, avvicinarsi, donare? Quale volto di Dio annuncerà? La prima lettura racconta di un Dio che inventa l’arcobaleno, questo abbraccio lucente tra cielo e terra; che fa alleanza – mai revocata e irrevocabile- con ogni essere che vive in ogni carne. Questo Dio non ti lascerà mai. Tu lo puoi lasciare, ma lui no, non ti lascerà mai. L’arcobaleno, lanciato tra cielo e terra, dopo quaranta giorni di navigazione nel diluvio, prende nuove radici nel deserto, nei quaranta giorni di Gesù. Ne intravvedo i colori nelle parole: stava con le fiere e gli angeli lo servivano. Gesù lavora, nel deserto, all’armonia perduta e anche l’infinito si allinea. E nulla che faccia più paura. Quelle fiere selvatiche che Gesù incontra, sono anche il simbolo delle nostre parti oscure, gli spazi d’ombra che ci abitano, ciò che non mi permette di essere completamente libero o felice, che mi rallenta, che mi spaventa, che non fiorisce: quelle bestie che un giorno ci hanno graffiato, sbranato, artigliato. Gesù stava con loro... Impariamo con lui a stare lì, a guardarle in faccia, a nominarle, a far pace con loro. Non le devi né ignorare né temere, non le devi neppure uccidere, ma dar loro un nome, che è come conoscerle, e poi dare loro una direzione: sono la tua parte di caos, ma chi ti sospinge a incontrarle è lo Spirito Santo. Dio mi raggiunge attraverso la mia debolezza, entra nei miei punti deboli e non i miei punti forti, e la mia parte malata diventa il punto di incontro con il guaritore. Forse mai i miei problemi saranno del tutto guariti, ma in realtà sono io che devo essere guarito, e sarò maturo quando saprò avviare percorsi, iniziare processi, incalzato dal vento dello Spirito. “L’uomo non è ne angelo né bestia, ma una corda tesa tra i due. E quando vuole essere angelo diventa bestia” (Pascal). Anche il viaggio più lungo comincia dal primo passo. Dopo che Giovanni fu arrestato Gesù andò nella Galilea proclamando il vangelo di Dio. E diceva: il Regno di Dio è vicino. Proclama Dio come una “bella notizia”. Non era ovvio per niente. Non tutta la bibbia è vangelo; alle volte è minaccia e ingiunzione. Ma la caratteristica originale del rabbi di Nazaret è annunciare vangelo, che equivale a confortare la vita: Dio si è fatto vicino, è un alleato amabile, un abbraccio, un arcobaleno. Questo è l’annuncio che corre lungo le rive del lago di Galilea: Dio è vicino a te. Con amore.
Quaresima 2024
VIVERE INTENSAMENTE LA LITURGIA Le domeniche di Quaresima offrono nell’Eucaristia pagine di Vangelo ricchissime e bellissime. Anche la Parola di Dio delle messe feriali è di singolare intensità, soprattutto il Vangelo.
RISCOPRIRE LA GRAZIA DEL SACRAMENTO DELLA PENITENZA (CONFESSIONE). Incontrare la misericordia di Dio e ritornare a sentire che il Signore continua a fidarsi di noi è una gioia per il nostro cuore. Sentiremo di essere liberi nell’animo e di essere stimolati a indirizzare i nostri passi sulla strada del bene. La grazia di questo Sacramento è energia che ci fa consapevoli di essere capaci di compiere il bene e che il bene compiuto è come un seme che fruttifica con abbondanza.
SOBRIETÀ, DIGIUNO E CARITÀ La Quaresima è proposta come tempo di penitenza, di digiuno e soprattutto di carità. L’invito è di essere più sobri nei consumi; vivere anche l’esperienza del digiuno come libertà dai propri istinti; avvertire che abbiamo la responsabilità di aiutare chi è nel bisogno. È solo da ricordare il particolare significato dei venerdì di quaresima: sono giorni di penitenza, di silenzio e di preghiera. Giorni che ci stimolano ad alzare lo sguardo sulla realtà e vedere l’altro nel bisogno. Non possiamo restare indifferenti. La carità è ciò che misura il nostro vivere intensamente la Quaresima. Ricordiamo in particolare al centro della chiesa l’iniziativa “Un pane per amor di Dio” e la raccolta viveri in fondo alla chiesa attraverso la cesta della carità.
Gesù apre le sue porte al dolore del mondo
È il report di una giornata-tipo di Gesù, scandita dall’alternarsi di tre cose: annunciare, guarire, pregare. Cafarnao è il primo laboratorio del Regno, dove il mondo di Dio si misura con il mondo del dolore. Nella bibbia il futuro inizia sempre, come qui, dalle paludi. Marco inanella le tre location preferite del Maestro: la strada (Gesù si reca), la casa (di Simone), la folla. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Subito. Fa tenerezza questo preoccuparsi di Simone e Andrea delle loro vicende familiari e metterne a parte Gesù, come si fa con gli amici stretti. Tutto ciò che occupa il cuore dell’uomo entra nel rapporto con Dio. Egli si avvicinò. Il primo verbo bellissimo, rivelatore: Gesù non sopporta distanze e mostra il suo primo annuncio in atto: il regno si è fatto vicino ( Mc 1,15). Si avvicinò e la prese per mano. Potenza umile dei gesti: mano nella mano, una donna e Dio. Una mano è fatta per innalzarsi in un gesto di invocazione, per stringere altre mani in segno di amicizia o di aiuto, per accarezzare e per proteggere, per ricevere e per dare. La prende e la solleva: toccare, arte della vicinanza, un parlare con il corpo, forza trasmessa a chi è stanco, fiducia per ogni figlio impaurito, carezza per chi è solo. Gesù la solleva, la fa “ri-sorgere”, la libera. Ed ella li serviva: il servizio è il test della vera guarigione per tutti. Il Vangelo usa lo stesso verbo nel racconto delle tentazioni, quando gli angeli si avvicinarono a Gesù e lo servivano. Una donna, la suocera di Simone, assimilata agli angeli, le creature più vicine a Dio, diventa la prima diaconessa del Vangelo. Poi, dopo il tramonto del sole, finito il sabato con i suoi divieti (proibito anche visitare gli ammalati) tutto il dolore di Cafarnao si riversa alla porta della casa di Simone: la città intera era riunita davanti alla porta. Davanti a Gesù, in piedi sulla soglia, in piedi tra la casa e la strada, tra la casa e la città; davanti a Gesù che ama le porte aperte, che fanno entrare occhi e stelle, polline di parole e il rischio della vita; davanti alle porte aperte di Dio, s’addensa il dolore del mondo. La casa scoppia di folla e di dolore, e poi di vita ritrovata. Queste guarigioni compiute dopo il tramonto, quando iniziava il nuovo giorno, sono il collaudo del mondo nuovo, raccontato sul ritmo della Genesi: “e fu sera e fu mattino”. Il miracolo è, nella sua bellezza giovane, l’inizio del primo giorno della vita guarita. Quando era ancora buio, uscì in un luogo segreto e là pregava. Gesù sa inventare spazi, quegli spazi segreti che danno salute all’anima, a tu per tu con Dio, a liberare le sorgenti della vita, così spesso insabbiate.
Gesù apre le sue porte al dolore del mondo
Un lebbroso cammina diritto verso di lui. Gesù non si scansa, non mostra paura. Si ferma in faccia al dolore, al rifiuto del villaggio, così vicino da toccarlo. Il lebbroso “porterà vesti strappate, sarà velato fino al labbro superiore, starà solo e fuori” (Lev 13,46). Dalla bocca velata, dal volto nascosto del rifiutato, esce un’espressione bellissima: «Se vuoi, puoi guarirmi». Con tutta la discrezione di cui è capace: «Se vuoi». E intuisco Gesù toccato da questa domanda grande e sommessa, che gli stringe il cuore e lo obbliga a rivelarsi: «Se vuoi». A nome di tutti i figli dolenti della terra il lebbroso lo interroga: che cosa vuole veramente Dio da questa carne piagata, che se ne fa di queste lacrime? Vuole dolore o figli guariti? Davanti al contagioso, all’impuro, un cadavere che cammina, che non si deve toccare, uno scarto buttato fuori, Gesù prova “compassione”. Il vangelo usa un termine di una carica infinita, che indica un crampo nel ventre, un morso nelle viscere, una ribellione fisica: no, non voglio; basta dolore! Gesù prova compassione, allunga la mano e tocca. Nel Vangelo ogni volta che Gesù si commuove, tocca. Tocca l’intoccabile, toccando ama, amando lo guarisce. Dio non guarisce con un decreto, ma con una carezza. La risposta di Gesù al “se vuoi” del lebbroso, è diretta e semplice, una parola ultima e immensa sul cuore di Dio: «Lo voglio: guarisci!». Me lo ripeto, con emozione, fiducia, forza: eternamente Dio altro non vuole che figli guariti. È la bella notizia, un Dio che fa grazia, che risana la vita, senza condizioni. Che adesso lotta con me contro ogni mio male, rinnovando goccia a goccia la vita, stella a stella la notte. E lo mandò via, con tono severo, ordinandogli di non dire niente. Perché Gesù non compie miracoli per qualche altro fine, per fare adepti o avere successo, neppure per convertire qualcuno. Lui guarisce il lebbroso perché torni integro, perché sia restituito alla sua piena umanità e alla gioia degli abbracci. È la stessa cosa che accade per ogni gesto d’amore: amare “per” non è amore vero, pregare “per” non è preghiera pura. Quanti uomini e donne, pieni di vangelo, hanno fatto come Gesù e sono andati dai lebbrosi del nostro tempo: rifugiati, senza fissa dimora, migranti, donne della tratta. Li hanno toccati, con tenerezza, e molti di questi, e sono migliaia, sono letteralmente guariti dal loro male, e sono diventati a loro volta guaritori. Prendere il vangelo sul serio ha dentro una potenza che cambia il mondo. E tutti quelli che l’hanno preso sul serio e hanno toccato i lebbrosi, tutti testimoniano che questo porta con sé una grande felicità. Perché sei dalla parte giusta della vita.
Convertirsi, cioè volgersi verso la luce che è Cristo
Marco ci conduce al momento sorgivo e fresco del Vangelo, quando una notizia bella inizia a correre per la Galilea: l’attesa è finita, il regno di Dio è qui. Gesù non dimostra il Regno, lo mostra, lo fa fiorire dalle sue mani: libera, guarisce, perdona, toglie barriere, ridona pienezza a tutti, a cominciare dagli ultimi della fila. Viene come guaritore del disamore del mondo. La seconda parola di Gesù: convertitevi, giratevi verso il Regno. C’è un’idea di movimento nella conversione, come nel moto del girasole che ogni mattino rialza la sua corolla e la mette in cammino sui sentieri del sole. Allora: “convertitevi” dice: “giratevi verso la luce perché la luce è già qui”. Ogni mattino, ad ogni risveglio, posso anch’io “convertirmi”, muovere pensieri e sentimenti e scelte verso una stella polare, verso la buona notizia che Dio è più vicino, è entrato di più nel cuore del mondo, nel mio, ed è all’opera con mite e possente energia. Gesù ha camminato per tre anni, ha percorso tutte le strade di Galilea, innamorato non di recinti ma di orizzonti. E se ti eri fermato, proprio da là ti fa ripartire, vivrai ancora inizi, perché non sei al mondo per essere immacolato ma incamminato. Camminando lungo il lago, Gesù vide… L’ambiente di lavoro è il luogo privilegiato della vocazione, lo è stato per Mosè, per Saul, Davide, Eliseo, Amos, per i pescatori Andrea e Pietro. «Dio si trova in qualche modo sulla punta della mia penna, del mio piccone, del mio pennello, del mio ago, del mio cuore, del mio pensiero» (Teilhard de Chardin). Gesù ha gli occhi di un profeta, guarda e in Simone intuisce Pietro, la Roccia. Vede Giovanni e in lui indovina il discepolo dalle più belle parole d’amore. Un giorno, guarderà l’adultera trascinata a forza davanti a lui, e in lei vedrà la donna capace di amare bene di nuovo. Il Maestro guarda anche me, nei miei inverni vede grano che spunta, generosità che non sapevo di avere, capacità che non sospettavo. Dio ha verso di me la fiducia di chi contempla le stelle prima ancora che sorgano. Seguitemi, venite dietro a me. Gesù non si dilunga sulle motivazioni, perché il motivo è la sua persona, lui che ti mette il Regno appena nato fra le mani. E lo dice con una frase inedita: Vi farò pescatori di uomini. Come se dicesse: “vi farò cercatori di tesori”. Mio e vostro tesoro sono gli uomini. Li tirerete fuori dall’oscurità, come pesci da sotto la superficie delle acque, come neonati dalle acque materne, come tesoro dissepolto dal campo. Li porterete dalla vita sommersa alla vita nel sole. Mostrerete che è possibile vivere meglio, per tutti, e che il Maestro del cuore e delle strade ne possiede la chiave.