Dare e avere. I conti di Dio non sono come i nostri.
Domenica scorsa Gesù aveva proiettato nel cielo della pianura umana un sogno: beati voi poveri, guai a voi ricchi; oggi sgrana un rosario di verbi esplosivi. Amate è il primo; e poi fate del bene, benedite, pregate. E noi pensiamo: fin qui va bene, sono cose buone, ci sta. Ma quello che mi scarnifica, i quattro chiodi della crocifissione, è l'elenco dei destinatari: amate i vostri nemici, i vostri odiatori, gli infamanti, gli sparlatori. Gli inamabili. Poi Gesù, per sgombrare il campo da ogni equivoco, mi guarda negli occhi, si rivolge a me, dice al singolare: “tu”, dopo il “voi” generico. E sono altre quattro cicatrici da togliere il fiato: porgi l'altra guancia, non rifiutare, dà, non chiedere indietro. Amore di mani, di tuniche, di pelle, di pane, di gesti. E di nuovo ti costringe a guardare, a cercare chi non vuoi: chi ti colpisce, chi ruba il tuo, il petulante furbo che chiede sempre e non dà mai. Nell'equilibrio mondano del dare e dell'avere, Gesù introduce il disequilibrio divino: date; magnificamente, dissennatamente, illogicamente date; porgete, benedite, prestate, ad amici e nemici, fate il primo passo. Come fa Dio. Questo Vangelo rischia di essere un supplizio, la nostra tortura, una coercizione a tentare cose impossibili. E così si apre la strada a quell'ipocrisia che ci demolisce. Nessuno vivrà questo Vangelo a colpi di volontà, neppure i più bravi tra noi. Ma solo attingendo alla sorgente: siamo nel cuore di Dio, questa è la vita di Dio. In cui radicarsi. Di cui essere figli. Poi Gesù indica la seconda origine di tutti questi verbi di fuoco: ciò che volete che gli uomini facciano a voi, fatelo voi a loro. Come una capriola logica, rispetto a ciò che ha appena detto, ma che è bellissima: non volare lontano, torna al cuore, al desiderio, a tutto ciò che vuoi per te: abbiamo tutti un disperato bisogno di essere abbracciati, di essere perdonati, di uno almeno che ci benedica, di una casa dove sentirci a casa, di contare sul mantello di un amico. Ho bisogno di aprire le braccia senza paura e senza misura. Ciò che desideri per te, donalo all'altro. Altrimenti saprai solo prendere, possedere, violare, distruggere. L'amore non è un optional. È necessario per vivere, e per farlo insieme. In quelle parole, penetranti come chiodi, è nascosta la possibilità perché un futuro ci sia per il mondo. Nell'ultimo giorno il Padre domanderà ad Abele: cosa hai fatto di tuo fratello Caino? Ho perdonato, gli ho dato il mantello, ho spezzato il mio pane. La vittima che si prende cura del violento e insieme forzano l'aurora del Regno. Solo un sogno? Vedrai, verranno a mangiare dalle tue mani il pane dei sogni di Dio. È già accaduto. Accadrà ancora.
Dio regala gioia a chi costruisce pace
Se non siamo come sonnambuli, questo Vangelo ci dà la scossa. «Sono venuto a portare il lieto annuncio ai poveri», aveva detto nella sinagoga, eco della voce di Isaia. Ed eccolo qui, il miracolo: beati voi poveri, Il luogo della felicità è Dio, ma il luogo di Dio è la croce, le infinite croci degli uomini. E aggiunge un'antitesi abbagliante: non sono i poveri il problema del mondo, ma i ricchi: guai a voi ricchi. Sillabe sospese tra sogno e miracolo, che erano state osate, prima ancora che da Gesù, da Maria nel canto del Magnificat: ha saziato gli affamati di vita, ha rimandato i ricchi a mani vuote (Lc 1,53). Se Gesù avesse detto che la povertà è ingiusta, e quindi semplicemente da rimuovere, il suo sarebbe stato l'insegnamento di un uomo saggio attento alle dinamiche sociali (R. Virgili). Ma quell'oracolo profetico, anzi più-che-profetico, quel “beati” che contiene pienezza, felicità, completezza, grazia, incollato a persone affamate e in lacrime, a poveracci, disgraziati, ai bastonati dalla vita, si oppone alla logica, ribalta il mondo, ci obbliga a guardare la storia con gli occhi dei poveri, non dei ricchi, altrimenti non cambierà mai niente. E ci saremmo aspettati: beati voi perché ci sarà un capovolgimento, un'alternanza, diventerete ricchi. No. Il progetto di Dio è più profondo. Il mondo non sarà reso migliore da coloro che hanno accumulato più denaro. «Il vero problema del mondo non è la povertà, è la ricchezza! La povertà vuol dire libertà del cuore dai possessi; libertà come pace con le cose, pace con la terra, fonte di ogni altra pace. Il ricco invece è un uomo sempre in guerra con gli elementi, un violento, un usurpatore, il primo soggetto di disordine del mondo. Non sono i poveri i colpevoli del disordine, non è la povertà il male da combattere; il male da combattere è la ricchezza. È l'economia del mondo ad esigerlo: senza povertà non c'è salvezza rispetto al consumo delle fonti energetiche, non c'è possibilità di pane per tutti, non rapporto armonioso con la vita, non fraternità, non possibilità di pace. Appunto, non c'è beatitudine e felicità per nessuno. Perché non v'è pace con la terra, con le cose, con la natura. Non c'è rispetto per le creature» (David Maria Turoldo). Beati voi... Il Vangelo più alternativo che si possa pensare. Manifesto stravolgente e contromano; e, al tempo stesso, vangelo amico. Perché le beatitudini non sono un decreto, un comando da osservare, ma il cuore dell'annuncio di Gesù: sono la bella notizia che Dio regala vita a chi produce amore, Dio regala gioia a chi costruisce pace. In esse è l'inizio della guarigione del cuore, perché il cuore guarito sia l'inizio della guarigione del mondo.
Un sogno divino per piccoli imprenditori
Comincia così la storia di Gesù con i suoi discepoli: dalle reti vuote, dalle barche tirate in secca. Linguaggio universale e immagini semplicissime. Non dal pinnacolo del tempio, ma dal pulpito di una barca a Cafarnao. Non dal santuario, ma da un angolo umanissimo e laico. E, in più, da un momento di crisi. Il Signore ci incontra e ci sceglie ancora, come i primi quattro, forse proprio per quella debolezza che sappiamo bene. Fingere di non avere ferite, o una storia accidentata, ci rende commedianti della vita. Se uno ha vissuto, ha delle ferite. Se uno è vero, ha delle debolezze e delle crisi. E lì ci raggiunge la sua voce: Pietro, disubbidisci alle reti vuote, ubbidisci a un sogno. Gli aveva detto: Allontanati da me, perché sono un peccatore. Ma lui non se n'è andato e sull'acqua del lago ha una reazione bellissima. Il grande Pescatore non conferma le parole di Pietro, non lo giudica, ma neppure lo assolve, lo porta invece su di un altro piano, lontano dallo schema del peccato e dentro il paradigma del bene futuro: sarai pescatore di uomini. Non temere il vuoto di ieri, il bene possibile domani conta di più. Gesù rialza, dà fiducia, conforta la vita e poi la incalza verso un di più: d'ora in avanti tu sarai... ed è la vita che riparte. Quando parla a Pietro, è a me che parla. Nessuno è senza un talento, senza una barchetta, una zattera, un guscio di noce. E Gesù sale anche sulla mia barca. Sale sulla barca della mia vita che è vuota, che ho tirato in secca, che quando è in alto mare oscilla paurosamente, e mi prega di ripartire con quel poco che ho, con quel poco che so fare, e mi affida un nuovo mare. E il miracolo non sta nella pesca straordinaria e nelle barche riempite di pesci; non è nelle barche abbandonate sulla riva, ancora cariche del loro piccolo tesoro. Il miracolo grande è Gesù che non si lascia impressionare dai miei difetti, non ha paura del mio peccato, e vuole invece salire sulla mia barca, mio ospite più che mio signore. E, abbandonato tutto, lo seguirono. Che cosa mancava ai quattro per convincerli a mollare barche e reti per andare dietro a quel giovane rabbi dalle parole folgoranti? Avevano il lavoro, una piccola azienda di pesca, una famiglia, la salute, il Libro e la sinagoga, tutto il necessario per vivere. Eppure qualcosa mancava. E non era una morale più nobile, non dottrine più alte. Mancava un sogno. Gesù è il custode dei sogni dell'umanità. Offre loro il sogno di cieli nuovi e terra nuova, il cromosoma divino nel nostro Dna, fratelli tutti, una vita indistruttibile e felice. Li prende e li fa sconfinare. Gli ribalta il mondo. E i pescatori cominciano ad ubbidire agli stessi sogni di Dio.
Non i profeti ma gli amanti salveranno il mondo
Nazaret passa in fretta dallo stupore all'indignazione, dagli applausi a un raptus di violenza. Tutto parte da una richiesta: «Fai anche qui i miracoli di Cafarnao!» . Quello che cercano è un bancomat di miracoli fra i vicoli del villaggio, un Dio che stupisca con effetti speciali, che risolva i problemi e non uno che cambi il cuore. Non farò miracoli qui; li ho fatti a Cafarnao e a Sidone e sulla pelle del lebbroso: il mondo è pieno di miracoli, eppure non bastano mai. Li aveva appena incantati con il sogno di un mondo nuovo, lucente di libertà, di occhi guariti, di poveri in festa, e loro lo riconducono alle loro attese, a un Dio da adoperare a proprio profitto, nei piccoli naufragi quotidiani. Ma il Dio di Gesù non si sostituisce a me, non occupa, non invade, non si impossessa. È un Dio di sconfinamenti, la sua casa è il mondo: e la sinagoga si popola di vedove forestiere e di generali nemici. Inaugurando così un confronto tra miracolo e profezia, tra il Dio spiazzante della Parola e il Dio comodo dei problemi risolti. Eppure, che cosa c'è di più potente e di più bello di uno, di molti profeti, uomini dal cuore in fiamme, donne certe di Dio? Come gli abitanti di Nazaret, siamo una generazione che ha sperperato i suoi profeti, che ha dissipato il miracolo di tanta profezia che lo Spirito ha acceso dentro e fuori la Chiesa. I nomi sono tanti, li conoscete tutti. «Non è costui il figlio di Giuseppe?» Che la profezia abbia trovato casa in uno che non è neanche un levita o uno scriba, che ha le mani callose, come le mie, uno della porta accanto, che ha più o meno i problemi che ho io; che lo Spirito faccia del quotidiano la sua eternità, che l'infinito sia alla latitudine di casa, questo ci pare poco probabile. Belli i profeti, ma neanche la profezia basta. Ciò che salverà il mondo non sono Elia o Eliseo. Non coloro che hanno una fede da trasportare le montagne, ma coloro che sanno trasportare il loro cuore verso gli altri e per loro. Non i profeti, ma gli amanti. E se la profezia è imperfetta, se è per pochi, l'amore è per tutti. L'unica cosa che rimane quando non rimane più nulla. Allora lo condussero sul ciglio del monte per gettarlo giù. Ma come sempre negli interventi di Dio, improvvisamente si verifica nel racconto lo strappo di una porta che si apre, di una breccia nel muro, un "ma": ma Gesù passando in mezzo a loro si mise in cammino. Non fugge, non si nasconde, passa in mezzo; aprendosi un solco come di seminatore o di mietitore, mostrando che si può ostacolare la profezia, ma non bloccarla. "Non puoi fermare il vento, gli fai solo perdere tempo" (F. De Andrè). Non facciamo perdere tempo al vento di Dio.
Il programma di Gesù: portare gioia e libertà
Tutti gli occhi erano fissi su di lui. Erano appena risuonata la voce di Isaia: parole così antiche e così amate, così pregate e così desiderate, così vicine e così lontane. Gesù ha cercato con cura quel brano nel rotolo: conosce bene le Scritture, ci sono mille passi che parlano di Dio, ma lui sceglie questo, dove l'umanità è definita con quattro aggettivi: povera, prigioniera, cieca, oppressa. Allora chiude il libro e apre la vita. Ecco il suo programma: portare gioia, libertà, occhi guariti, liberazione. Un messia che non impone pesi, ma li toglie; che non porta precetti, ma orizzonti. E sono parole di speranza per chi è stanco, è vittima, non ce la fa più. Dio riparte dagli ultimi della fila, raggiunge la verità dell'umano attraverso le sue radici ammalorate. Adamo è povero più che peccatore; è fragile prima che colpevole; siamo deboli ma non siamo cattivi, è che abbiamo le ali tarpate e ci sbagliamo facilmente. Nel Vangelo mi sorprende e mi emoziona sempre scoprire che in quelle pagine accese si parla più di poveri che di peccatori; più di sofferenze che di colpe. Non è moralista il Vangelo, è liberatore. Dio ha sofferto vedendo Adamo diventare povero, cieco, oppresso, prigioniero, e un giorno non ha più potuto sopportarlo, ed è sceso, ha impugnato il seme di Adamo, ha intrecciato il suo respiro con il nostro respiro, i suoi sogni con i nostri. È venuto ed ha fatto risplendere la vita, ha messo canzoni nuove nel cuore, frantumi di stelle corrono nelle nostre vene. Perché Dio non ha come obiettivo se stesso, siamo noi lo scopo di Dio. Il catechismo sovversivo, stravolgente, rivoluzionario di Gesù: non è l'uomo che esiste per Dio ma è Dio che esiste per l'uomo. E considera ogni povero più importante di se stesso. Io sono quel povero. Fiero per fierezza d'amore: nessuno ha un Dio come il nostro. E poi Gesù spalanca ancora di più il cielo, delinea uno dei tratti più belli del volto del Padre: «Sono venuto a predicare un anno di grazia del Signore», un anno di grazia, di cui Gesù soffia le note negli inferi dell'umanità (R. Virgili); un anno, un secolo, mille anni, una storia intera fatta solo di benevolenza, a mostrare che Dio non solo è buono, ma è soltanto buono. «Sei un Dio che vivi di noi» (Turoldo). E per noi: «Non ci interessa un divino che non faccia fiorire l'umano. Un divino cui non corrisponda la fioritura dell'umano non merita che ad esso ci dedichiamo»" (D. Bonhoffer). Forse Dio è stanco di devoti solenni e austeri, di eroi dell'etica, di eremiti pii e pensosi, forse vuole dei giullari felici, alla san Francesco, felici di vivere. Occhi come stelle. E prigionieri usciti dalle segrete che danzano nel sole. (M. Delbrêl).
Sul Giordano Gesù è nido della colomba del cielo
Il popolo era in attesa e tutti si domandavano, riguardo a Giovanni, se non fosse lui il Cristo. Siamo così, creature di desiderio e di attesa, con dentro, sulla via del cuore, questo “tendere -a”, appassionato e attento, dato che il presente non basta a nessuno. L’attesa è così forte che fa nascere sentieri, e la gente è spinta fuori, sulla strada. Lascia il tempio e Gerusalemme dalle belle pietre, per cercare un luogo di sabbia e acqua, a decine di chilometri, dove si alzava una voce libera come il vento del deserto. Sei tu il Messia? E Giovanni scende dall’altare delle attese della gente per dire: no, non sono io. Viene dopo di me colui che è più forte di me». In che cosa consiste la sua forza? Lui è il più forte perché ha il fuoco, perché parla al cuore del popolo, come aveva profetizzato Osea: la condurrò al deserto e là parlerò al suo cuore. Due soli versetti raccontano il Battesimo di Gesù, quasi un inciso, in cui però il grande protagonista è lo Spirito Santo. Sul Giordano la colomba del cielo cerca il suo nido, e il suo nido è Gesù. Lo Spirito ancora adesso cerca il suo nido, e ognuno di noi è nido della colomba di Dio. Gesù stava in preghiera, e il cielo si aprì. Bellissima questa dinamica causa-effetto. Gesù sta in preghiera, e la meravigliosa risposta di Dio è di aprire il cielo. E non è vuoto e non è muto. Per ogni nostra preghiera la dinamica è sempre la stessa: una feritoia, una fenditura che si apre nel cielo chiuso e ne scende un volo di parole: Tu sei il Figlio mio, l’amato, in te ho posto il mio compiacimento. Ogni preghiera non fa che ripetere incessantemente questo: «Parlami / aspetto a carne aperta / che mi parli./ Noi non siamo qui per vivere / ma perché qualcuno / deve parlarci» (Franco Arminio). E la prima parola è “Figlio”. La “parola” scende e si fa, nel deserto, e qui, un “figlio”. Dio è forza di generazione, che come ogni essere genera secondo la propria specie. Siamo specie della sua specie, abbiamo Dio nel sangue e nel respiro. Posta in principio a tutte, “figlio” è parola che sta all’inizio perché sta anche alla fine di tutto. “Tu sei amato” è la seconda parola. Di immeritato amore, asimmetrico, unilaterale, incondizionato. Qui è posto il fondamento di tutta la legge. “Tu sei amato” è il fondamento; “tu amerai” è il compimento. Chi esce da questo, amerà il contrario della vita. Mio compiacimento è la terza parola, l’ultima. Un termine che non ci è abituale, eppure parola lucente, pulsante: c’è in Dio una vibrazione di gioia, un fremito di piacere; non è un essere freddo e impersonale, senza emozioni, ma un Padre apritore di cieli, felice di essere padre, in festa davanti a ognuno dei suoi figli.
Preghiera per l'unità dei cristiani
Dal 18 al 25 di gennaio ricorre la settimana di preghiera per l’unità dei cristiani dal titolo:“In oriente abbiamo visto apparire la sua stella e siamo venuti qui per onorarlo” (Matteo 2, 2).
Auguri per un Natale diverso!
Speravamo che quest’anno potessimo dimenticare il problema Coronavirus. Invece siamo alle prese con una situazione simile all’anno scorso. Ci ritroviamo “costretti” dalle circostanze a concentrarci sull’essenziale. Proviamoci! Forse mai come quest’anno sentiamo il bisogno di una compagnia. La regola del distanziamento ci ha fatto riscoprire l’esigenza insopprimibile delle relazioni e abbiamo compreso più profondamente l’importanza di un abbraccio, di una stretta di mano, di un bacio. Nell’incarnazione Dio si fa vicino, nostro compagno di viaggio. Così l’umano è abitato da Dio, da una presenza d’Amore che ha messo la sua tenda dentro di noi, nei nostri cuori. Le persone, ciascuna nella sua singolarità e tutte insieme, diventano abitazione di Dio e sua immagine. L’uomo e la donna, il bambino, il giovane e il vecchio, possono essere guardati e amati come immagine di Dio, sua abitazione e luogo in cui incontrarlo. Noi siamo l’abitazione di Dio! Torniamo all’essenziale: riscopriamo le cose semplici. Il mistero del Natale porti Speranza a tutta la nostra comunità: a quanti vivono nel dolore e nella malattia; a quanti sono stati colpiti dalla crisi economica; agli anziani che più di altri risentono delle restrizioni dovute alla pandemia; ai ragazzi che hanno visto ridursi a zero ogni possibilità di socializzazione. Buon Natale di vero cuore a tutti voi! Il bambino di Betlemme, luce per il mondo, porti la pace vera nelle vostre case, giunga abbondante a chi ha maggiormente bisogno di consolazione e di speranza.
Don Daniele Vettor
È in casa che si impara l’arte di amare, e di essere felici
La Bibbia è popolata da famiglie, da generazioni, da storie di amore e di crisi familiari, fin dalla prima pagina, dove entra in scena la famiglia di Adamo ed Eva, con il suo carico di violenza, ma anche con la forza della vita che continua (Amoris laetitia,1). La Bibbia è una biblioteca sull'arte e sulla fatica di amare, è il racconto dell'amore, vivo e potente, incarnato e quotidiano, visibile o segreto. Lo è anche nel Vangelo di oggi: storia di una crisi familiare, di un adolescente difficile, di due genitori che non riescono a capire che cosa ha in testa. Figlio, perché ci hai fatto stare in angoscia? È il racconto di una famiglia che alterna giorni sereni tranquilli e altri drammatici, come accade in tutte le famiglie, specie con i figli adolescenti. Ma che sa fare buon uso delle crisi, attraverso un dialogo senza risentimenti e senza accuse. Figlio perché? L'interesse di Maria non è rivolto al rimprovero, non accusa, non giudica, non si deprime perché il figlio l'ha fatta soffrire, ma cerca di capire, di comprendere, di accogliere una diversità difficile. Non sapevate che devo occuparmi delle cose del Padre mio? I nostri figli non sono nostri, appartengono al Signore, al mondo, alla loro vocazione, ai loro sogni. Un figlio non può, non deve strutturare la sua vita in funzione dei genitori. È come fermare la ruota della creazione. Ma essi non compresero... e tuttavia nessun dramma o ricatto emotivo, nessuna chiusura del dialogo. Un figlio non è sempre comprensibile, ma è sempre abbracciabile. Scesero insieme a Nazaret. Si riparte, anche se non tutto è chiaro; si persevera dentro l'eco di una crisi, meditando e custodendo nel cuore gesti, parole e domande finché un giorno non si dipani il filo d'oro che tutto illuminerà e legherà insieme. Gesù partì con loro, tornò a casa e stava loro sottomesso. C'è incomprensione, c'è un dolore che pesa sul cuore, eppure Gesù torna con chi non lo capisce. E cresce dentro quella famiglia santa ma non perfetta, santa e limitata. Sono santi, sono profeti, eppure non si capiscono tra loro. E noi ci meravigliamo di non capirci, qualche volta, nelle nostre case? Tutte diversamente imperfette, ma tutte capaci di far crescere. Gesù lascia i maestri della Legge, va con Giuseppe e Maria, maestri di vita: al tempio Dio preferisce la casa, luogo del primo e più importante magistero, dove i figli imparano l'arte di essere felici: l'arte di amare. Lì Dio si incarna, mi sfiora, mi tocca; lo fa nel volto, nei gesti, nello sguardo di ognuno che mi vuole bene, e quando so dire loro: non avere paura, io ci sono e mi prenderò cura della tua felicità. È Lui regala gioia a chi produce amore.
Elisabetta e Maria, così è l’arte dell’incontro
Maria si mise in viaggio in fretta. Appena partito l'angelo, anche lei vola via da Nazaret. Il suo cammino sembra ricalcare a ritroso le orme che Gabriele ha lasciato nell'aria per giungere da lei: «gli innamorati volano» (santa Camilla Battista da Camerino). Appena giunta in quella casa di profeti, Maria si comporta come Gabriele con lei. «Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta»: angelo di un lieto annunzio, che il bimbo nel grembo della madre percepisce subito, con tutto se stesso, come una musica, un appello alla danza, una tristezza finita per sempre: «il bambino ha sussultato di gioia» . Il Santo non è più al tempio, è lì, nella carne di una donna, «dolce carne fatta cielo» (M. Marcolini). Nella danza dei grembi, nella carne di due donne, si intrecciano ora umanità e divinità. Nella Bibbia, quando gli uomini sono fragili, o corrotti, o mancano del tutto, entrano in gioco le donne (R. Virgili). Da Maria ed Elisabetta impariamo anche noi l'arte dell'incontro: la corsa di Maria è accolta da una benedizione. Un vento di benedizione dovrebbe aprire ogni dialogo che voglia essere creativo. A chi condivide con me strada e casa, a chi mi porta un mistero, a chi mi porta un abbraccio, a chi mi ha dato tanto nella vita, io ripeterò la prima parola di Elisabetta: che tu sia benedetto, Dio mi benedice con la tua presenza, possa Egli benedire te con la mia presenza. Benedetta tu fra le donne. Su tutte le donne si estende la benedizione, su tutte le figlie di Eva, su tutte le madri del mondo, su tutta l'umanità al femminile, su «tutti i frammenti di Maria seminati nel mondo e che hanno nome donna» (G. Vannucci). E beata sei tu che hai creduto. Risuona la prima delle tante beatitudini dell'evangelo, e avvolge come un mantello di gioia la fede di Maria: la fede è acquisizione di bellezza del vivere, di un umile, mite e possente piacere di esistere e di fiorire, sotto il sole di Dio. Elisabetta ha iniziato a battere il ritmo, e Maria intona la melodia, diventa un fiume di canto, di salmo, di danza. Le parole di Elisabetta provocano una esplosione di lode e di stupore: magnificat. I primi due profeti del Nuovo Testamento sono due madri con una vita nuova, che balza su dal grembo, e afferma: «Ci sono!». E da loro imparo che la fede e il cristianesimo sono questo: una presenza nella mia esistenza. Un abbraccio nella mia solitudine. Qualcuno che viene e mi consegna cose che neppure osavo pensare. Natale è la convinzione santa che l'uomo ha Dio nel sangue; che dentro il battito umile e testardo del mio cuore palpita un altro cuore che – come nelle madri in attesa – batte appena sotto il mio. E lo sostiene. E non si spegne più.
Le tre regole indicate da Giovanni per cambiare
Le folle interrogavano Giovanni. Va da lui la gente che non frequenta il tempio, gente qualunque, pubblicani, soldati; vanno da quell'uomo credibile con un'unica domanda, che non tocca teologia o dottrina, ma va diritta al cuore della vita: che cosa dobbiamo fare? Perché la vita non può essere solo lavorare, mangiare, dormire, e poi di nuovo lavorare... Tutti sentiamo che il nostro segreto è oltre noi, che c'è una vita ulteriore, come appello o inquietudine, come sogno o armonia. Una fame, una voglia di partire: profeta del deserto, tu conosci la strada? Domandano cose di tutti i giorni, perché il modo con cui trattiamo gli uomini raggiunge Dio, il modo con cui trattiamo con Dio raggiunge gli uomini. Giovanni risponde elencando tre regole semplici, fattibili, alla portata di tutti, che introducono nel mio mondo l'altro da me. Il profeta sposta lo sguardo: da te alle relazioni attorno a te. Prima regola: chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha, e chi ha da mangiare faccia altrettanto. Regola che da sola basterebbe a cambiare la faccia e il pianto del mondo. Quel profeta moderno che era il Mahatma Gandhi diceva: ciò che hai e non usi è rubato ad un altro. Giovanni apre la breccia di una terra nuova: è vero che se metto a disposizione la mia tunica e il mio pane, io non cambio il mondo e le sue strutture ingiuste, però ho inoculato l'idea che la fame non è invincibile, che il dolore degli altri ha dei diritti su di me, che io non abbandono chi ha fatto naufragio, che la condivisione è la forma più propria dell'umano. Vengono ufficiali pubblici, hanno un ruolo, un'autorità: Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato. Una norma così semplice da sembrare perfino realizzabile, perfino praticabile: una insurrezione di onestà, la semplice rivolta degli onesti: almeno non rubate! Vengono anche dei soldati, la polizia di Erode: hanno la forza dalla loro, estorcono pizzi e regalie; dicono di difendere le legge e la violano: voi non maltrattate e non estorcete niente a nessuno. Non abusate della forza o della posizione per offendere, umiliare, far piangere, ferire, spillare soldi alle persone. Niente di straordinario. Giovanni non dice "lascia tutto e vieni nel deserto"; semplici cose fattibili da chiunque: non accumulare; se hai, condividi; non rubare e non usare violenza. Il brano si conclude con Giovanni che alza lo sguardo: Viene uno più forte di me e vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. È il più forte non perché si impone e vince, ma perché è l'unico che parla al cuore, l'unico che "battezza nel fuoco". Ha acceso milioni e milioni di vite, le ha accese e le ha rese felici. Questo fa di lui il più forte. E il più amato.
Se non alzi il tuo capo non vedrai l’arcobaleno
Ricomincia da capo l'anno liturgico, quando ripercorreremo un'altra volta tutta la vita di Gesù. L'anno nuovo inizia con la prima domenica d'Avvento, il nostro capodanno, il primo giorno di un cammino (quattro settimane) che conduce a Natale, che è il perno attorno al quale ruotano gli anni e i secoli, l'inizio della storia nuova, quando Dio è entrato nel fiume dell'umanità. Ci saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per ciò che dovrà accadere. Il Vangelo non anticipa la fine del mondo, racconta il segreto del mondo: ci prende per mano e ci porta fuori, a guardare in alto, a sentire il cosmo pulsare attorno a noi; ci chiama ad aprire le finestre di casa per far entrare i grandi venti della storia, a sentirci parte viva di una immensa vita. Che patisce, che soffre, ma che nasce. Il mondo spesso si contorce come una partoriente, dice Isaia, ma per produrre vita: è in continua gestazione, porta un altro mondo nel grembo. La terra risuona di un pianto mai finito, ma il Vangelo ci domanda di non smarrire il cuore, di non camminare a capo chino, a occhi bassi. Risollevatevi, alzate il capo, guardate in alto e lontano, la liberazione è vicina. Siamo tentati di guardare solo alle cose immediate, forse per non inciampare nelle macerie che ingombrano il terreno, ma se non risolleviamo il capo non vedremo mai nascere arcobaleni. Uomini e donne in piedi, a testa alta, occhi nel sole: così vede i discepoli il Vangelo. Gente dalla vita verticale. Allora il nostro compito è di sentirci parte dell'intero creato, avvolti da una energia più grande di noi, connessi a una storia immensa, dove anche la mia piccola vicenda è preziosa e potente, perché gravida di Dio: «Cristo può nascere mille volte a Betlemme, ma se non nasce in me, è nato invano» (Meister Eckart). Gesù chiede ai suoi leggerezza e attenzione, per leggere la storia come un grembo di nascite. Chiede attenzione ai piccoli dettagli della vita e a ciò che ci supera infinitamente: “esisterà pur sempre anche qui un pezzetto di cielo che si potrà guardare, e abbastanza spazio dentro di me per poter congiungere le mani nella preghiera” (Etty Hillesum). Chiede un cuore leggero e attento, per vegliare sui germogli, su ciò che spunta, sul nuovo che nasce, sui primi passi della pace, sul respiro della luce che si disegna sul muro della notte o della pandemia, sui primi vagiti della vita e dei suoi germogli. Il Vangelo ci consegna questa vocazione a una duplice attenzione: alla vita e all'infinito. La vita è dentro l'infinito e l'infinito è dentro la vita; l'eterno brilla nell'istante e l'istante si insinua nell'eterno. In un Avvento senza fine
Giovanni il profeta raggiunto dalla Parola
Una pagina solenne, quasi maestosa, dà avvio a questo Vangelo. Da un luogo senza nome il racconto si lancia fino al cuore dell'impero romano, sconfina dal Giordano fino al trono di Tiberio Cesare. Il Vangelo attraversa le frontiere politiche, sociali, etniche, religiose, per introdurre Gesù, l'uomo senza frontiere, l'asse attorno al quale ruotano i secoli e i millenni, mendicanti e imperatori. Traccia la mappa del potere politico e religioso, e poi, improvvisamente, introduce il dirottamento: nell'anno 15° dell'impero di Tiberio Cesare, la parola di Dio venne... su chi? Sull'imperatore? Sul sommo sacerdote? Su un piccolo re? Su nessuno di questi, ma su di un giovane, un asceta senza tetto, che viveva mangiando il nulla che il deserto gli offriva: insetti e miele faticoso. La Parola di Dio vola via dal tempio, lontano dalle stanze del potere, e raggiunge un povero nel deserto, amico del vento senza ostacoli, del silenzio vigile, dove ogni sussurro raggiunge il cuore. La parola discese a volo d'aquila sopra Giovanni, figlio di Zaccaria nel deserto. La nuova capitale del mondo è un luogo senza nome, nelle steppe di Giuda. Là dove l'uomo non può neppure vivere, lì scende la parola che fa vivere. E percorreva tutta la regione del Giordano. Portava un annuncio, anzi era portato da un annuncio: Raddrizzate, appianate, colmate... C'è del lavoro da fare, un lavoro enorme: spianare e colmare, per diventare semplici e diritti e senza barriere. Quel giovane profeta un po' selvatico dipinge un paesaggio aspro, che ha i tratti duri e violenti della nostra storia, irta di barriere e burroni, dove ogni violenza apre un baratro da colmare, tronca strade, non permette il cammino degli uni verso gli altri e, insieme, verso Dio. E le strade su cui Dio sceglie di venire sono sempre le nostre strade... L'ultima riga del Vangelo è bellissima: ogni uomo vedrà la salvezza. Ogni uomo? Sì, letteralmente: ogni donna, ogni anziano, ogni straniero. Dio vuole tutti salvi, e in qualche modo misterioso raggiungerà tutti, e non si fermerà davanti a burroni o montagne, né davanti alla tortuosità del mio passato o ai cocci della mia vita. Ogni uomo vedrà la salvezza: «ogni uomo che fa esperienza dell'amore, viene in contatto con il Mistero di Cristo in un modo che noi non conosciamo» (Gaudium et spes 22). Ogni persona, di ogni razza e religione, di ogni epoca, sotto ogni cielo, che fa esperienza dell'amore, sfiora e tocca il Mistero di Dio. È da brividi la bellezza e la potenza di questa parola. Tu sei in contatto con il mistero, se ami. Ognuno di noi, se ama, confina con Dio ed entra nel pulsare stesso, profondo, potente e generativo, della vita di Dio.
È l’amore disarmato che cambia il mondo
Pilato, l'uomo che detiene il maggior potere in Gerusalemme, e il giovane rabbi disarmato: l'uno di fronte all'altro, di fronte alla storia del mondo. Tu sei il re dei giudei? Possibile che quel galileo dallo sguardo limpido e diritto sia a capo di una rivolta, che ne nasca un pericolo per Roma? No, quell'uomo inerme è un pericolo per i complotti del sinedrio, per i giochi dei politici: ti hanno consegnato a me, vogliono ucciderti. Cosa hai fatto? Gesù mi commuove con il suo coraggio, con la sua statura interiore, mentre fa alzare sul pretorio un vento regale di libertà e fierezza. E adesso apre il mondo di Pilato, lo dilata, fa irrompere un'altra dimensione, un'altra latitudine del cuore: il mio regno non è di questo mondo, dove si combatte, si fa violenza, si abusa, si inganna, ci si divora. Nel mio regno non ci sono legioni, né spade, né predatori. Per i regni di quaggiù, per il cuore di quaggiù, l'essenziale è vincere, nel mio Regno la cosa più importante è servire. Il mio regno appartiene ai poveri, ai limpidi, ai liberi, agli artigiani della pace e della giustizia... Sono venuto per far sorgere i re di domani tra i piccoli di oggi. «Sono venuto nel mondo, per testimoniare un'altra verità». La parola di Gesù è vera proprio perché disarmata, non ha altra forza che la sua luce. È lì davanti, la verità; è quell'uomo in cui le parole più belle del mondo sono diventate carne e sangue, sono diventate vere. Oggi non celebriamo la salita al trono del padrone del mondo, Gesù non è questo: lui è l'autore e il servitore della vita. Che ci cambia la logica della storia attraverso la rivoluzione della tenerezza, parola ultima sul senso della nostra esistenza e, insieme, sul cuore di Dio. Allora, chi è il mio re? Chi il mio Signore? Chi da ordini al mio futuro? Io scelgo lui, ancora lui, il nazareno, con la certezza che il nostro contorto cuore, questa storia aggrovigliata, stanno percorrendo, nonostante tutte le smentite, un cammino di salvezza. Perché Dio è coinvolto, è qui, ha le mani impigliate per sempre nel folto di ogni vita. Pilato prende l'affermazione di Gesù: io sono re, e ne fa il titolo della condanna, l'iscrizione derisoria da inchiodare sulla croce: questo è il re dei giudei. Voleva deriderlo, e invece è stato profeta: il re è visibile là, sulla croce, con le braccia aperte, dove dona tutto di sé e non prende niente di nostro. Potere vero, quello che cambia il mondo, è la capacità di amare così, di disarmato amore, fino all'ultimo, fino all'estremo, fino alla fine. Venga il tuo Regno, Signore, e sia bello come tutti i sogni, sia intenso come tutte le lacrime di chi visse e morì nella notte per forzarne l'aurora.