Attraversare con fiducia la terra dei lupi.
Vanno i settantadue discepoli, a due a due, quotidianamente dipendenti dal cielo e da un amico; senza borsa, né sacca, né sandali, senza cose, senza mezzi, semplicemente uomini. «L'annunciatore deve essere infinitamente piccolo, solo così l'annuncio sarà infinitamente grande» (G. Vannucci). Non portano niente e dicono: torniamo semplici e naturali, quello che conta è davvero poco. I discepoli sono dei ricostruttori di umanità, e il loro primo passo contiene l'arte dell'accompagnamento, mai senza l'altro. Due non è la somma di uno più uno, è l'inizio della comunione. Allora puoi anche attraversare la terra dei lupi, passarvi in mezzo, con coraggio e fiducia: vi mando come agnelli in mezzo ai lupi. Che forse sono più numerosi ma non più forti, che possono azzannare e fare male, ma che non possono vincere. Vi mando come agnelli, senza zanne o artigli, ma non allo sbaraglio e al martirio, bensì a immaginare il mondo in altra luce, ad aprire il passaggio verso una casa comune più calda di libertà e di affetti. I campi della vita sono anche violenti, Gesù lo sconterà fino al sangue, eppure consegna ai suoi una visione del mondo bella come una sorpresa, una piccola meraviglia di positività e di luminosità: la messe è molta, ma gli operai sono pochi. Gli occhi del Signore brillano per il buon grano che trabocca dai campi della vita: sono uomini e donne fedeli al loro compito, gente dal cuore spazioso, dalle parole di luce, uomini generosi e leali, donne libere e felici. Là dove noi temiamo un deserto lui vede un'estate profumata di frutti, vede poeti e innamorati, bambini e giullari, mistici e folli che non sanno più camminare ma hanno imparato a volare. Gesù manda i suoi discepoli non a intonare lamenti sopra un mondo distratto e lontano, bensì ad annunciare il capovolgimento: il Regno di Dio si è fatto vicino. E le parole che affida ai discepoli sono semplici e poche: pace a questa casa, Dio è vicino. Parole dirette, che venivano dal cuore e andavano al cuore. Noi ci lamentiamo: il mondo si è allontanato da Dio! E Gesù invece: Dio si è avvicinato, Dio è in cammino per tutte le strade, vicinissimo a te, bussa alla tua porta e attende che tu gli apra. In qualunque casa entriate, dite: pace a questa casa. Gesù sogna la ricostruzione dell'umano attraverso mille e mille case ospitali e braccia aperte: l'ospitalità è il segno più attendibile, indiscutibile, dell'alto grado di umanità che un popolo ha raggiunto (R. Virgili), prima pietra della civiltà, prima parola civile, perché dove non si pratica l'ospitalità, si pratica la guerra e si impedisce lo shalom, cioè la pace che è il fiorire della vita in tutte le sue forme.
San Benedetto Da Norcia 11 luglio
San Benedetto, fratello di santa Scolastica, nacque verso il 480 nella città umbra di Norcia. Il padre Eutropio, figlio di Giustiniano Probo della gens Anicia, era Console e Capitano Generale dei Romani nella regione di Norcia, mentre la madre era Abbondanza Claudia de' Reguardati di Norcia. Quando ella morì, secondo la tradizione, i due furono affidati alla nutrice Cirilla. Alla gens appartenevano anche san Gregorio Magno e Severino Boezio. A 12 anni fu mandato con la sorella a Roma a compiere i suoi studi, ma, come racconta Gregorio Magno nel secondo libro dei Dialoghi, sconvolto dalla vita dissoluta della città «ritrasse il piede che aveva appena posto sulla soglia del mondo per non precipitare anche lui totalmente nell'immane precipizio. Disprezzò quindi gli studi letterari, abbandonò la casa e i beni paterni e volle far parte della vita monastica». All'età di 17 anni, insieme con la sua nutrice Cirilla, si ritirò nella valle dell’Aniene presso Eufide (l'attuale Affile), dove, secondo la leggenda devozionale, avrebbe compiuto il primo miracolo, riparando un vaglio rotto dalla stessa nutrice. La lasciò e si avviò verso la valle di Subiaco, presso gli antichi resti di una villa neroniana, nella quale le acque del fiume Aniene alimentavano tre laghi (la città sorgeva appunto sotto - "sub" - questi laghi). A Subiaco incontrò Romano, monaco di un vicino monastero retto da un abate di nome Adeodato, che, vestitolo degli abiti monastici, gli indicò una grotta impervia del Monte Taleo (attualmente contenuta all'interno del Monastero del Sacro Speco), dove Benedetto visse da eremita per circa tre anni, fino alla Pasqua dell'anno 500. Conclusa l'esperienza eremitica, accettò di fare da guida ad altri monaci in un ritiro cenobitico presso Vicovaro, ma, dopo che alcuni monaci tentarono di ucciderlo con una coppa di vino avvelenato, tornò a Subiaco. Qui rimase per quasi trent'anni, predicando la "Parola del Signore" e accogliendo discepoli sempre più numerosi, fino a creare una vasta comunità di tredici monasteri, ognuno con dodici monaci e un proprio abate, tutti sotto la sua guida spirituale. Negli anni tra il 525 ed il 529, a seguito di un altro tentativo di assassinio con un pane avvelenato, Benedetto decise di abbandonare Subiaco per salvare i propri monaci. Si diresse quindi verso Cassino dove, sopra un'altura, fondò il monastero di Montecassino, edificato sopra i resti di templi pagani e con oratori in onore di san Giovanni Battista (da sempre ritenuto un modello di pratica ascetica) e di san Martino di Tours, che era stato iniziatore in Gallia della vita monastica.
Quel dono del «pane» per tutti e insieme.
Mandali via, è sera ormai, e siamo in un luogo deserto. Gli apostoli si preoccupano per la folla, ne condividono la fame, ma non vedono soluzioni: «lascia che ciascuno vada a risolversi i suoi problemi, come può, dove può». Ma Gesù non ha mai mandato via nessuno. Anzi vuole fare di quel luogo deserto una casa calda di pane e di affetto. E condividendo la fame dell'uomo, condivide il volto del Padre: “alcuni uomini hanno così tanta fame, che per loro Dio non può avere che la forma di un pane” (Gandhi). E allora imprime un improvviso cambio di direzione al racconto, attraverso una richiesta illogica ai suoi: Date loro voi stessi da mangiare. Un verbo semplice, asciutto, concreto: date. Nel Vangelo il verbo amare si traduce sempre con un altro verbo, fattivo, di mani: dare (Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio (Gv 3,16), non c'è amore più grande che dare la vita per i propri amici (Gv 15,13). Ma è una richiesta impossibile: non abbiamo che cinque pani e due pesci. Un pane per ogni mille persone e due pesciolini: è poco, quasi niente, non basta neppure per la nostra cena. Ma il Signore vuole che nei suoi discepoli metta radici il suo coraggio e il miracolo del dono. C'è pane sulla terra a sufficienza per la fame di tutti, ma non è sufficiente per l'avidità di pochi. Eppure chi dona non diventa mai povero. La vita vive di vita donata. Fateli sedere a gruppi. Nessuno da solo, tutti dentro un cerchio, tutti dentro un legame; seduti, come si fa per una cena importante; fianco a fianco, come per una cena in famiglia: primo passo per entrare nel gioco divino del dono. Fuori, non c'è altro che una tavola d'erba, primo altare del vangelo, e il lago sullo sfondo con la sua abside azzurra. La sorpresa di quella sera è che poco pane condiviso tra tutti, che passa di mano in mano e ne rimane in ogni mano, diventa sufficiente, si moltiplica in pane in-finito. La sorpresa è vedere che la fine della fame non consiste nel mangiare da solo, a sazietà, il mio pane, ma nello spartire il poco che ho, e non importa cosa: due pesci, un bicchiere d'acqua fresca, olio e vino sulle ferite, un po' di tempo e un po' di cuore, una carezza amorevole. Sento che questa è la grande parola del pane, che il nostro compito nella vita sa di pane: non andarcene da questa terra senza essere prima diventati pezzo di pane buono per la vita e la pace di qualcuno. Tutti mangiarono a sazietà. Quel “tutti” è importante. Sono bambini, donne, uomini. Sono santi e peccatori, sinceri o bugiardi, nessuno escluso, donne di Samaria con cinque mariti e altrettanti fallimenti, nessuno escluso. Prodigiosa moltiplicazione: non del pane ma del cuore.
Il vento dello Spirito che porta la libertà
Lo Spirito Santo, il misterioso cuore del mondo, il vento sugli abissi, l'Amore in ogni amore, è Dio in libertà, un vento che porta pollini dove vuole primavere, che non lascia dormire la polvere, che si abbatte su ogni vecchia Gerusalemme. Dio in libertà, che non sopporta statistiche, che nella vita e nella Bibbia non segue mai degli schemi. Libero e liberante come lo è il vento, la cosa più libera che ci sia, che alle volte è una brezza leggera, alle volte un uragano che scuote la casa; che è voce di silenzio sottile, ma anche fuoco ardente chiuso dentro le ossa del profeta (Ger 20,9). Pentecoste è una festa rivoluzionaria di cui non abbiamo ancora colto appieno la portata. Lo Spirito «vi insegnerà ogni cosa»: lui ama insegnare, accompagnare oltre, far scoprire paesaggi inesplorati, portare i credenti a vivere in «modalità esplorativa», non come esecutori di ordini, ma come inventori si strade. Lo Spirito è creatore e vuole discepoli geniali e creatori, a sua immagine. Vento che non tace mai, per cui ogni credente ne è avvolto e intriso, così che ognuno ha tanto Spirito Santo quanto ne hanno i pastori. Infatti «il popolo di Dio, per costante azione dello Spirito, evangelizza continuamente se stesso» (Evangelii Gaudium 139). Parole come un vento che apre varchi, porta sentori di nuove primavere. Il popolo di Dio evangelizza se stesso, continuamente. Una visione di potente fiducia, in cui ogni uomo e ogni donna hanno dignità di profeti e di pastori, ognuno un proprio momento di Dio, ognuno una sillaba del Verbo, tutti evangelisti di un proprio «quinto evangelio», sotto l'ispirazione dello Spirito. Verrà lo Spirito, vi riporterà al cuore tutto di Gesù, di quando passava e guariva la vita, e diceva parole di cui non si vedeva il fondo. Ma non basta, lo Spirito vi guiderà alla verità tutta intera: apre uno spazio di conquiste e di scoperte; vi insegnerà nuove sillabe divine e parole mai dette ancora. Sarà la memoria accesa di ciò che è accaduto «in quei giorni irripetibili» e insieme sarà la genialità, per risposte libere e inedite, per oggi e per domani. Lévati o remoto Spirito/ candida già freme/ alta/ la vela (Davide M. Montagna). Una vela e il mare cambia, non è più un vuoto in cui perdersi o affondare. Basta che sorga una vela, alta a catturare il soffio dello Spirito, per iniziare una avventura verso nuovi mari, verso isole intatte, dimenticando il vuoto. E da là dove ti eri fermato, lo Spirito libero e liberante di Dio ti farà ripartire, mentre continua a compiere nella Chiesa la stessa opera che ha compiuto con Marco, Luca, Matteo, Giovanni: continua a far nascere evangelisti. E a farli navigare nel suo Vento.
Così la vita fiorirà in tutte le sue forme
Se uno mi ama osserverà la mia parola. Amare nel Vangelo non è l'emozione che intenerisce, la passione che divora, lo slancio che fa sconfinare. Amare si traduce sempre con un verbo: dare, «non c'è amore più grande che dare la propria vita» (Gv 15,13). Si tratta di dare tempo e cuore a Dio e fargli spazio. Allora potrai osservare la sua Parola, potrai conservarla con cura, così che non vada perduta una sola sillaba, come un innamorato con le parole dell'amata; potrai seguirla con la fiducia di un bambino verso la madre o il padre. Osserverà la mia parola, e noi abbiamo capito male: osserverà i miei comandamenti. E invece no, la Parola è molto di più di un comando o una legge: guarisce, illumina, dona ali, conforta, salva, crea. La Parola semina di vita i campi della vita, incalza, sa di pane, soffia forte nelle vele del tuo veliero. La Parola culmine di Gesù è tu amerai. Custodirai, seguirai l'amore. Che è la casa di Dio, il cielo dove abita, ecco perché verremo e prenderemo dimora in lui. Se uno ama, genera Vangelo. Se ami, anche tu, come Maria, diventi madre di Cristo, gli dai carne e storia, tu «porti Dio in te» (san Basilio Magno). Altre due parole di Gesù, oggi, da ospitare in noi: una è promessa, verrà lo Spirito Santo; una è realtà: vi do la mia pace. Verrà lo Spirito, vi insegnerà, vi riporterà al cuore tutto quello che io vi ho detto. Riporterà al cuore gesti e parole di Gesù, di quando passava e guariva la vita, e diceva parole di cui non si vedeva il fondo. Ma non basta, lo Spirito apre uno spazio di conquiste e di scoperte: vi insegnerà nuove sillabe divine e parole mai dette ancora. Sarà la memoria accesa di ciò che è accaduto in quei giorni irripetibili e insieme sarà la genialità, per risposte libere e inedite, per oggi e per domani. E poi: Vi lascio la pace, vi dono la mia pace. Non un augurio, ma un annuncio, al presente: la pace “è” già qui, è data, oramai siete in pace con Dio, con gli uomini, con voi stessi. Scende pace, piove pace sui cuori e sui giorni. Basta col dominio della paura: il drago della violenza non vincerà. È pace. Miracolo continuamente tradito, continuamente rifatto, ma di cui non ci è concesso stancarci. La pace che non si compra e non si vende, dono e conquista paziente, come di artigiano con la sua arte. Non come la dà il mondo, io ve la do... il mondo cerca la pace come un equilibrio di paure oppure come la vittoria del più forte; non si preoccupa dei diritti dell'altro, ma di come strappargli un altro pezzo del suo diritto. Shalom invece vuol dire pienezza: «il Regno di Dio verrà con il fiorire della vita in tutte le sue forme» (G. Vannucci).
L’amore di Cristo fa sbocciare la speranza
Se cerchiamo la firma inconfondibile di Gesù, il suo marchio esclusivo, lo troviamo in queste parole. Pochi versetti, registrati durante l'ultima cena, quando per l'unica volta nel vangelo, Gesù dice ai suoi discepoli: «Figlioli», usa una parola speciale, affettuosa, carica di tenerezza: figliolini, bambini miei. «Vi do un comandamento nuovo: come io ho amato voi così amatevi anche voi gli uni gli altri». Parole infinite, in cui ci addentriamo come in punta di cuore, trattenendo il fiato. Amare. Ma che cosa vuol dire amare, come si fa? Dietro alle nostre balbuzie amorose c'è la perdita di contatto con lui, con Gesù. Ci aiuta il vangelo di oggi. La Bibbia è una biblioteca sull'arte di amare. E qui siamo forse al capitolo centrale. E infatti ecco Gesù aggiungere: amatevi come io ho amato voi. L'amore ha un come, prima che un ciò, un oggetto. La novità è qui, non nel verbo, ma nell'avverbio. Gesù non dice semplicemente «amate». Non basta amare, potrebbe essere solo una forma di dipendenza dall'altro, o paura dell'abbandono, un amore che utilizza il partner, oppure fatto solo di sacrifici. Esistono anche amori violenti e disperati. Amori tristi e perfino distruttivi. Come io ho amato voi. Gesù usa i verbi al passato: guardate a quello che ho fatto, non parla al futuro, non della croce che pure già si staglia, parla di cronaca vissuta. Appena vissuta. Siamo nella cornice dell'Ultima Cena, quando Gesù, nella sua creatività, inventa gesti mai visti: il Maestro che lava i piedi nel gesto dello schiavo o della donna. Offre il pane anche a Giuda, che lo ha preso ed è uscito. E sprofonda nella notte. Dio è amore che si offre anche al traditore, e fino all'ultimo lo chiama amico. Non è amore sentimentale quello di Gesù, lui è il racconto inedito della tenerezza del Padre; ama con i fatti, con le sue mani, concretamente: lo fa per primo, in perdita, senza contare. È amore intelligente, che vede prima, più a fondo, più lontano. In Simone di Giovanni, il pescatore, vede la Roccia; in Maria di Magdala, la donna dei sette demoni, intuisce colei che parlerà con gli angeli; dentro Zaccheo, il ladro arricchito, vede l'uomo più generoso di Gerico. Amore che legge la primavera del cuore, pur dentro i cento inverni! Che tira fuori da ciascuno il meglio di ciò che può diventare: intere fontane di speranza e libertà; tira fuori la farfalla dal bruco che credevo di essere. In che cosa consiste la gloria, evocate per cinque volte in due versetti, la gloria per ciascuno di noi? La gloria dell'uomo, e la stessa gloria si Dio consistono nell'amare. Non c'è altro di cui vantarsi. È lì il successo della vita. La sua verità. «La verità rivelata è l'amore» (P. Florenski).
Le parole di Gesù: voce soave e mano forte
Le mie pecore ascoltano la mia voce. Non comandi da eseguire, ma voce amica da ospitare. L'ascolto è l'ospitalità della vita. Per farlo, devi “aprire l'orecchio del cuore”, raccomanda la Regola di san Benedetto. La voce di chi ti vuole bene giunge ai sensi del cuore prima del contenuto delle parole, lo avvolge e lo penetra, perché pronuncia il tuo nome e la tua vita come nessuno. È l'esperienza di Maria di Magdala al mattino di Pasqua, di ogni bambino che, prima di conoscere il senso delle parole, riconosce la voce della madre, e smette di piangere e sorride e si sporge alla carezza. La voce è il canto amoroso dell'essere: Una voce! L'amato mio! Eccolo, viene saltando per i monti, balzando per le colline (Ct 2,8). E prima ancora di giungere, l'amato chiede a sua volta il canto della voce dell'amata: la tua voce fammi sentire (Ct 2,14)... Perché le pecore ascoltano? Non per costrizione, ma perché la voce è bellissima e ospita il futuro. Io do loro la vita eterna!(v.28). La vita è data, senza condizioni, senza paletti e confini, prima ancora della mia risposta; è data come un seme potente, seme di fuoco nella mia terra nera. Linfa che giorno e notte risale il labirinto infinito delle mie gemme, per la fioritura dell'essere. Due generi di persone si disputano il nostro ascolto: i seduttori e i maestri. I seduttori, sono quelli che promettono vita facile, piaceri facili; i maestri veri sono quelli che donano ali e fecondità alla tua vita, orizzonti e un grembo ospitale. Il Vangelo ci sorprende con una immagine di lotta: Nessuno le strapperà dalla mia mano (v.28). Ben lontano dal pastore sdolcinato e languido di tanti nostri santini, dentro un quadro bucolico di agnellini, prati e ruscelli. Le sue sono le mani forti di un lottatore contro lupi e ladri, mani vigorose che stringono un bastone da cammino e da lotta. E se abbiamo capito male e restano dei dubbi, Gesù coinvolge il Padre: nessuno può strapparle dalla mano del Padre (v.29). Nessuno, mai (v.28). Due parole perfette, assolute, senza crepe, che convocano tutte le creature (nessuno), tutti i secoli e i giorni (mai): nessuno ti scioglierà più dall'abbraccio e dalla presa delle mani di Dio. Legame forte, non lacerabile. Nodo amoroso, che nulla scioglie. L'eternità è la sua mano che ti prende per mano. Come passeri abbiamo il nido nelle sue mani; come un bambino stringo forte la mano che non mi lascerà cadere. E noi, a sua immagine piccoli pastori di un minimo gregge, prendiamo schegge di parole dalla voce del Pastore grande, e le offriamo a quelli che contano per noi: nessuno mai ti strapperà dalla mia mano. E beato chi sa farle volare via verso tutti gli agnellini del mondo.
PELLEGRINAGGIO DELL’ICONA DI MARCO IVAN RUPNIK
In occasione della giornata mondiale delle famiglie dal 22 al 26 giugno a Roma
30/5 ore 20.00: al capitello di Maria sul ponte del Muson incontro tra la parrocchia di Castello di Godego e quella di Poggiana per la consegna dell’Icona. Ore 20.30 S. Messa di conclusione del mese di maggio e dell’anno catechistico in chiesa a Poggiana.
31/5 ore 20.30: S. Messa di chiusura del mese di maggio e dell’anno catechistico a Vallà.
6/6 ore 20.30: Veglia di preghiera di Collaborazione per tutte le famiglie presso la chiesa di Vallà.
10/6 ore 19.00: in chiesa a Poggiana preghiera con le famiglie proposta dalla Commissione di pastorale familiare.
12/6 ore 10.15: consegna dell’icona alla collaborazione dell’Alta padovana.
Concerto Mariano
Sabato 28 maggio alle ore 20.30 presso la chiesa parrocchiale di Vallà Concerto Mariano. Il coro “Agogica” eseguirà canti mariani per aiutarci ad entrare nella spiritualità mariana. Ingresso libero.
L' “Atelier di Canto Lirico Agogica” nasce dall’unione di alcuni allievi dell’Istituto Morello di Castelfranco Veneto e dell’Istituto Musicale Malipiero di Asolo, sotto la guida del Soprano Elisabetta Battaglia e del pianista accompagnatore maestro Giovanni Campello. Tutti sono accomunati dal desiderio di fare musica insieme, spinti soprattutto dall’amore per il bel canto, convinti che potersi esibire davanti ad un pubblico completi la preparazione e premi lo studio, formano un gruppo ben affiatato e sempre alla ricerca di migliorarsi. “Agogica” è il nome che i componenti del gruppo hanno scelto perché sintetizza il loro spirito e l’entusiasmo che li anima. Agogica, dal greco “agoghè”, significa movimento: sintetizza il complesso delle leggere modificazioni dell’andamento del tempo apportate durante l’esecuzione del brano per ragioni interpretative.
Sorpresi da Gesù: «Mi ami più di tutti?»
Un'alba sul lago di Galilea. Quante albe nei racconti pasquali! Ma tutta «la nostra vita è un albeggiare continuo (Maria Zambrano), un progressivo sorgere della luce. Pietro e gli altri sei compagni si sono arresi, sono tornati indietro, alla vita di prima. Chiusa la parentesi di quei tre anni di strade, di vento, di sole, di parole come pane e come luce, di itineranza libera e felice, conclusa nel modo più drammatico. E i sette, ammainata la bandiera dei sogni, sono tornati alla legge del quotidiano. «Ma in quella notte non presero nulla». Notte senza stelle, notte amara, in cui in ogni riflesso d'onda pare loro di veder naufragare un sogno, un volto, una vita. In quell'albeggiare sul lago il miracolo non sta nel ripetersi di un'altra pesca straordinaria, sta in Pietro che si butta in acqua vestito, che nuota più forte che può, nell'ansia di un abbraccio, con il cuore che punta diritto verso quel piccolo fuoco sulla riva. Dove Gesù, come una madre, ha preparato una grigliata di pesce per i suoi amici. Poteva sedersi, aspettare il loro arrivo, starsene ad osservare, arrivare dopo, invece no, non trattiene la cura, non frena le attenzioni per loro: fuoco, braci, pesce, il tempo, le mani, il cibo. Si preoccupa di accoglierli bene, stanchi come sono, con qualcosa di buono. Gli incontri pasquali sono veri, è davvero Gesù, perché quelli che compie sono solo gesti d'amico! Sulla spiaggia, attorno a pane e pesce alla griglia, il più bel dialogo del mondo. Tre brevissime, fulminanti domande, rivolte a un pescatore bagnato come un pulcino, e l'alba è fredda; a Pietro che trema vicino alle braci di un fuocherello, trema per il freddo e per la domanda bruciante: Simone di Giovanni, mi ami più di tutti? Gesù non si interessa di aspetti dottrinali (hai capito il mio messaggio? ti è chiara la croce?), per lui ciò che brucia sono i legami interpersonali. Vuol sapere se dietro di sé ha lasciato amore, solo allora può tornare dal Padre. Teresa d'Avila, in un'estasi, sente: «Per un “ti amo” detto da te, Teresa, rifarei da capo l'universo». «Simone, mi ami?». Gesù vuol rifare Pietro da capo, lui non si interessa di rimorsi, di sensi di colpa, di pentimenti, ma di cuori riaccesi di nuovo. E Gesù abbassa le sue richieste e si adegua alla fragilità di Pietro, contento di quel piccolo: «ti sono amico», di quella briciola di «ti voglio bene». Non vuole imporsi, Gesù, vuole vedere il mondo con gli occhi di Pietro, vederlo con il cuore del debole, con gli occhi del povero, da incarnato, o non cambierà mai niente. Non dall'alto di un trono, ma all'altezza della canzone che cantano gli occhi dell'apostolo stanco. E ogni cuore umano è stanco.
San Liberale Patrono di Treviso e di Castelfranco Veneto
Patrono di Treviso e Castelfranco Veneto, San Liberale nacque ad Altino, nell'antica città romana posizionata tra Padova e Aquileia. Di ricca famiglia pagana, Liberale fin da giovane volle arruolarsi come soldato, convertitosi al cristianesimo con lo scopo di soccorrere i poveri e pregare, venne educato nella fede cristiana da Eliodoro, primo vescovo della città. Quando l'opposizione dei pagani e degli ariani, divenne insostenibile, Eliodoro decise di affidare la sua sede al vescovo Ambrogio, per ritirarsi poi nelle isole della laguna di Venezia. Dopo qualche tempo, preoccupato per l'incapacità di Ambrogio di fronteggiare pagani ed eretici, Liberale decise di intraprendere la ricerca di Eliodoro, chiedendo prima consiglio al Signore. Durante la preghiera nella cattedrale si addormentò e nel sonno gli apparve il suo angelo custode, che lo incoraggiò e gli preannunciò la vicina morte. Liberale decise così di recarsi a Castrazone, dove vi era una chiesa dedicata a S. Lorenzo, non trovando modo di raggiungere l'isola dove risiedeva Eliodoro, si fermò là conducendo vita eremitica. Colpito da grave malattia, dopo poco tempo, morì il 27 aprile del 437. Riconosciuto subito come santo, il suo corpo venne seppellito nella chiesa di S. Lorenzo entro un'arca marmorea, la leggenda afferma che in seguito alla sua morte, si verificarono episodi di miracoli. Il suo corpo, secondo fonti storiche, sarebbe stato portato a Treviso dagli abitanti di Altino nel 452 quando, sotto la minaccia degli Unni di Attila, si rifugiarono numerosi in quella città, nella cui diocesi restarono incorporati definitivamente anche Altino e il suo territorio. Intorno al VII sec. la sede vescovile passò a Torcello, dove vennero portati corpi di Liberale e degli altri martiri Teonisto, Tabra e Tabrata, per essere collocati in quella cattedrale. La presenza ed il culto di quei corpi santi a Treviso sono attestati, a cominciare dal 1082, da un crescendo di testimonianze monumentali ed archivistiche man mano che ci si avvicina alla fondazione, nel 1360 o nel 1365 della Confraternita di S. Liberale, da parte del beato Enrico di Treviso. I resti si trovano tuttora nella cripta del Duomo di San Pietro a Treviso.
I piedi di Dio percorrono la strada della storia
Sono i giorni supremi, e il respiro del tempo profondo cambia ritmo; la liturgia rallenta, prende un altro passo, accompagna con calma, quasi ora per ora, gli ultimi giorni di Gesù: dall'ingresso in Gerusalemme, alla corsa di Maddalena nel giardino, quando vede la pietra del sepolcro vestirsi di angeli. Per quattro sere di seguito, Gesù lascia il tempio e i duri conflitti e si rifugia a Betania: nella casa dell'amicizia, nel cerchio caldo degli amici, Lazzaro Marta Maria, quasi a riprendere il fiato del coraggio. Ha bisogno di sentirsi non solo il Maestro ma l'Amico. L'amicizia non è un tema minore del Vangelo. Ci fa passare dall'anonimato della folla a un volto unico, quello di Maria che prende fra le sue mani i piedi di Gesù, li tiene vicini a sé, stretti a sé, ben povero tesoro, dove non c'è nulla di divino, dove Gesù sente la stanchezza di essere uomo. Carezze di nardo su quei piedi, così lontani dal cielo, così vicini alla polvere di cui siamo fatti: con polvere del suolo Dio fece Adamo. Piedi sulle strade di Galilea, piedi che mi hanno camminato sul cuore, che mi hanno camminato nel profondo, là dove io sono polvere e cenere. Una carezza sui piedi di Dio. Dio non ha ali, ma piedi per perdersi nelle strade della storia, per percorrere i miei sentieri. Nell'ultima sera, Gesù ripeterà i gesti dell'amica, in ginocchio davanti ai suoi, i loro piedi fra le sue mani. Una donna e Dio si incontrano negli stessi gesti inventati non dall'umiltà, ma dall'amore. Quando ama, l'uomo compie gesti divini. Quando ama, Dio compie gesti molto umani. Ama con cuore di carne. Poi Gesù si consegna alla morte. Perché? Per essere con me e come me. Perché io possa essere con lui e come lui. Essere in croce è ciò che Dio, nel suo amore, deve all'uomo che è in croce. L'amore conosce molti doveri, ma il primo è di essere insieme con l'amato, è "passione d'unirsi" (Tommaso d'Aquino). Dio entra nella morte perché là va ogni suo figlio. La croce è l'abisso dove Dio diviene l'amante. E ci trascinerà fuori, in alto, con la sua pasqua. È qualcosa che mi stordisce: un Dio che mi ha lavato i piedi e non gli è bastato, che ha dato il suo corpo da mangiare e non gli è bastato, lo vedo pendere nudo e disonorato, e devo distogliere lo sguardo. Poi giro ancora la testa, torno a guardare la croce e vedo uno a braccia spalancate che mi grida: ti amo. Proprio me? Sanguina e grida, o forse lo sussurra, per non essere invadente: ti amo. Entra nella morte e la attraversa, raccogliendoci tutti dalle lontananze più sperdute, e Dio lo risuscita perché sia chiaro che un amore così non può andare perduto, e che chi vive come lui ha vissuto ha in dono la sua vita indistruttibile.
Quell’invito del Risorto a superare le barriere.
I discepoli erano chiusi in casa per paura. Casa di buio e di paura, mentre fuori è primavera: e venne Gesù a porte chiuse. In mezzo ai suoi, come apertura, schema di aperture continue, passatore di chiusure e di frontiere, pellegrino dell'eternità. Come amo le porte aperte di Dio, brecce nei muri, buchi nella rete (F. Fiorillo), profezia di un mondo in rivolta per fame di umanità. Venne Gesù e stette in mezzo a loro. Nel centro della loro paura, in mezzo a loro, non sopra di loro, non in alto, non davanti, ma al centro, perché tutti sono importanti allo stesso modo. Lui sta al centro della comunità, nell'incontro, nel legame: "lo Spirito del Signore non abita nell'io, non nel tu, egli abita tra l'io e il tu" (M. Buber). In mezzo a loro, senza gesti clamorosi, solo esserci: presenza è l'altro nome dell'amore. Non accusa, non rimprovera, non abbandona, "sta in mezzo", forza di coesione degli atomi e del mondo. Pace a voi, annuncia, come una carezza sulle vostre paure, sui vostri sensi di colpa, sui sogni non raggiunti, sulla tristezza che scolora i giorni. Gli avvenimenti di Pasqua, non sono semplici "apparizioni del Risorto", sono degli incontri, con tutto lo splendore, l'umiltà, la potenza generativa dell'incontro. Otto giorni dopo Gesù è ancora lì: li aveva inviati per le strade, e li ritrova ancora chiusi in quella stessa stanza. E invece di alzare la voce o di lanciare ultimatum, invece di ritirarsi per l'imperfezione di quelle vite, Gesù incontra, accompagna, con l'arte dell'accompagnamento, la fede nascente dei suoi. Guarda, tocca, metti il dito... La Risurrezione non ha richiuso i fori dei chiodi, non ha rimarginato le labbra delle ferite. Perché la morte di croce non è un semplice incidente di percorso da dimenticare: quelle ferite sono la gloria di Dio, il punto più alto che il suo amore folle ha raggiunto, e per questo resteranno eternamente aperte. Ai discepoli ha fatto vedere le sue ferite, tutta la sua umanità. E dentro c'era tutta la sua divinità. Metti qui la tua mano: qualche volta mi perdo a immaginare che forse un giorno anch'io sentirò le stesse parole, anch'io potrò mettere, tremando, facendomi condurre, cieco di lacrime, mettere la mia mano nel cuore di Dio. E sentirmi amato. Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto! L'ultima beatitudine è per noi, per chi fa fatica, per chi cerca a tentoni, per chi non vede e inciampa, per chi ricomincia. Così termina il Vangelo, così inizia il nostro discepolato: con una beatitudine, con il profumo della gioia, col rischio della felicità, con una promessa di vita capace di attraversare tutto il dolore del mondo, e i deserti sanguinosi della storia.
Quel silenzio di Gesù che spiazza i violenti
Gli scribi e i farisei gli condussero una donna... la posero in mezzo, quasi non fosse una persona ma una cosa, che si prende, si porta, si mette di qua o di là, dove a loro va bene, anche a morte. Sono scribi che mettono Dio contro l'uomo, il peggio che possa capitare alla fede, lettori di una bibbia dimezzata, sordi ai profeti («dice il Signore: io non godo della morte di chi muore», Ez 18,32). La posero in mezzo. Sguardi di pietra su di lei. La paura che le sale dal cuore agli occhi, ciechi perché non hanno nessuno su cui potersi posare. Attorno a lei si è chiuso il cerchio di un tribunale di soli maschi, che si credono giusti al punto di ricoprire al tempo stesso tutti i ruoli: prima accusatori, poi giudici e infine carnefici. Chiedono a Gesù: È lecito o no uccidere in nome di Dio? Loro immaginano che Gesù dirà di no e così lo faranno cadere in trappola, mostrando che è contro la Legge, un bestemmiatore. Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra... nella furia di parole e gesti omicidi, introduce una pausa di silenzio; non si oppone a viso aperto, li avrebbe fatti infuriare ancora di più. Poi, spiazza tutti i devoti dalla fede omicida, dicendo solo: chi è senza peccato getti per primo la pietra contro di lei. Peccato e pietre? Gesù scardina con poche parole limpide lo schema delitto/ castigo, quello su cui abbiamo fondato le nostre paure e tanta parte dei nostri fantasmi interiori. Rimangono soli Gesù e la donna, e lui ora si alza in piedi davanti a lei, come davanti a una persona attesa e importante. E le parla. Nessuno le aveva parlato: Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata? Neanch'io ti condanno, vai. E non le chiede di confessare la colpa, neppure le domanda se è pentita. Gesù, scrive non più per terra ma nel cuore della donna e la parola che scrive è: futuro. Va' e d'ora in poi non peccare più. Sette parole che bastano a cambiare una vita. Qualunque cosa quella donna abbia fatto, non rimane più nulla, cancellato, annullato, azzerato. D'ora in avanti: «Donna, tu sei capace di amare, puoi amare ancora, amare bene, amare molto. Questo tu farai...». Non le domanda che cosa ha fatto, le indica che cosa potrà fare. Lei non appartiene più al suo sbaglio, ma al suo futuro, ai semi che verranno seminati, alle persone che verranno amate. Il perdono è qualcosa che non libera il passato, fa molto di più: libera il futuro. E il bene possibile, solo possibile, di domani, conta di più del male di adesso. Nel mondo del vangelo è il bene che revoca il male, non viceversa. Il perdono è un vero dono, il solo dono che non ci farà più vittime, che non farà più vittime, né fuori né dentro noi.