Dio ci dona un cuore che sogna amore e vita
E se invece avessimo un cuore tenero? Se il nostro cuore non fosse diventato un pezzo di pietra nel petto che non batte, non sussulta, non sobbalza, non si stupisce più davanti alla meraviglia del creato e al mistero dell’altro? Se non avessimo bisogno di leggi e norme che ci impongano il rispetto e la difesa della dignità, il tremore dinanzi alla diversità, l’attenzione e la cura verso chi è nostro compagno di cammino? Se fossimo cioè rimasti come Dio ci ha desiderato quando, impastandoci col fango e soffiando su di noi, ci ha resi vivi e amanti? Dio non impone leggi, Lui mette nel nostro cuore un pezzetto del suo cuore che sogna amore e vita ovunque e che, come un artista visionario, vede straripare la bellezza dai fili d’erba, la forza dalla gemma sull’albero, la potenza dallo scorrere dei ruscelli. Vede la possibilità che portiamo racchiusa come un tesoro nascosto e profondo: il nostro cuore tenero. L’amore non si esige con la legge, vorrebbe dire snaturarlo, sciuparlo, denigrarlo: l’amore chiede una tenerezza di cuore che significa apertura, capacità di commuoversi e brividi di stupore. Come potrebbe Gesù parlarci di un Dio attento alle norme, proprio Lui che guarisce di sabato, che mangia coi peccatori e le prostitute, che si ferma a parlare con donne straniere e sconosciute? Lui che nel suo cammino ha strappato legacci e divelto sbarre di prigioni: «Chi è senza peccato scagli pure la prima pietra… Stasera, Zaccheo, vengo a cena da te…». Lui che è venuto per restituirci la libertà. Continua, il brano di Vangelo, con una scena che sembra piovere là per caso, ma forse tanto a caso non è: quei bambini che non stanno mai fermi, che toccano, annusano curiosi, che si incantano sulle piccole cose sono forse l’esempio della tenerezza di cuore che Dio ci chiede. Quei bambini che spalancano gli occhi e la bocca per ascoltare, pronti a mettere la loro mano nella tua per seguirti fiduciosi, senza domande, senza precauzioni, solo perché da te si sentono amati e accuditi, che cantano come cicale d’estate, si prendono tutto l’abbraccio di Dio. Portati in alto dalle Sue braccia, sollevati da terra per guardarlo negli occhi e ridere con Lui: sarà forse questo il Suo regno? don Luigi Verdi
Il nostro destino? Diventare bambini
Meglio tacere, meglio far finta di non aver ascoltato e rischiare di passare per sordi piuttosto che sentirsi chiamare Satana, come era successo a Pietro. Le parole di Gesù sono dure, quasi le stesse di quelle dette la settimana scorsa: la via che prospetta il Maestro non è quella sognata, splendente e vittoriosa, ma una via aspra, dolorosa, che prevede perfino la morte: no, non è proprio quella prevista. Meglio concentrarsi su altro, meglio pensare a chi fra loro può ritenersi il più bravo, il più importante, facendo paragoni e soppesando qualità e difetti gli uni degli altri. Lui parla di un Dio che si consegna nelle nostre mani, tutto per amore, solo per amore e loro, come noi, si accaniscono a circoscrivere insignificanti spazi di potere. Lui indica fin dove si può arrivare quando si ama da Dio e loro, come noi, a creare sbarramenti e confini, chiusi nella piccolezza delle loro ambizioni. Vaglielo a far capire che l’amore è forte, ma che chi ama è debolissimo. Che pazienza, che infinita pazienza deve avere con quelle teste dure il Maestro, pronto a ricominciare ogni volta, a spiegare meglio, a cercare di far entrare in quei cuori un frammento del cuore di Dio. E allora eccolo a chiamarli tutti e dodici intorno a sé e a spiegar loro una nuova matematica dove per alzarsi bisogna abbassarsi, dove il primo è l’ultimo, il grande è il piccolo e le misure non sono quelle di sempre, ma quelle sovversive di Dio. Misure che ribaltano ogni logica umana, ogni razionalità e come sistema metrico viene adottato un bambino: “Se non diventerete come bambini non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 18,4) come a ribadirci che le porte del paradiso sono basse, altezza di bambino, non di più. Come a dirci e ribadirci che forse Dio è un bambino entusiasta, con la sua voglia di creare e la sua sete di cose belle, curioso e leggero, mai statico ma sempre in continuo movimento. Al bambino non interessano le filosofie e i discorsi astratti, ma piuttosto fantasticare, immaginare, toccare le cose e lasciarsene sorprendere. Gli basta così poco: un tratto di matita ed è pronto a viaggiare. Non se ne fa niente dei titoli e delle onorificenze, ma cerca gli sguardi che vanno dritti al cuore, gli abbracci di chi gli asciuga le lacrime e lo fa sorridere. “Noi siamo i bambini del futuro” scriveva Bonhoeffer, l’infanzia è il nostro destino, non il nostro passato ed è uno scenario grande quello di diventare piccoli.
Toccandoci Gesù ci ama e ci apre alla vita vera
Capita anche a noi, e tante volte nella nostra vita, che ce ne stiamo chiusi in noi stessi, sigillando ben bene gli spazi attraverso i quali la vita può insinuarsi, tappando ogni pertugio per evitare che qualcosa di esterno entri in noi e ci ferisca. Capita anche a noi di essere sordomuti. Tanto sordi e tanto muti da non riuscire a dire il dolore che ci attanaglia e da non voler sentire quello dell’altro. Un grido strozzato. Bello allora oggi leggere questo brano di Vangelo che ci riporta davanti a Gesù, da soli, in disparte, io e Lui a guardarci negli occhi, un solo sguardo: il mio di impotenza, il Suo di amore sulla mia impotenza. A chi presuppone che Dio sia un Dio immateriale, etereo e intangibile Gesù dimostra che invece Lui ama sporcarsi le mani, lavandoci i piedi, toccando piaghe o infilandoci un dito nelle orecchie: Lui ama toccarci. Gesù tocca, sputa, spalma fango, alita, prende per mano perché a Lui piace così, sentire e farsi sentire concretamente: Lui ama toccarci. E la nostra pelle, al suo tocco, freme; il nostro cuore, al suo tocco, brucia, perché anche a noi viene sussurrato «Effatà», come un sospiro, come una preghiera. Apriti all’ascolto, apriti al dialogo, alla relazione, alla vita. Non pensare di essere solo, è questo ciò che ti fa tremare e ti spegne: apriti come si apre la finestra al mattino, lasciati raggiungere dall’aria pulita della notte, dal fresco della rugiada sull’erba. Sgancia le cerniere, fa’ saltare i lucchetti, rompi le catene che ti costringono e ti rendono muto e sordo. Ascolta: la vita parla e canta e che anche nella tua casa si faccia festa. Lo abbiamo sentito nella prima lettura: «Egli viene a salvarvi. Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto, perché scaturiranno acque nel deserto, scorreranno torrenti nella steppa. La terra bruciata diventerà una palude, il suolo riarso sorgenti d’acqua». Oggi Gesù compie gesti che ricordano quelli della creazione, forse perché ogni volta che acconsentiamo ad aprire la zolla del nostro cuore è sempre un nuovo inizio, qualcosa di inimmaginabile si avvera, la vita prende nuova forma. Ed è festa, è inizio di bellezza, è gioia di nodi che si sciolgono, di orizzonti che si schiudono: è Lui che ci tocca. don Luigi Verdi /avvenire.it
Parole dure di Gesù che contengono la tenerezza
Ci sono parole dure, parole dalla scorza tanto resistente da non riuscire ad aprirle per estrarne il succo, come mandorle protette da un guscio invulnerabile. E arrivano, queste parole, come un sasso lanciato addosso, di cui si avverte solo la ferita che lascia sulla pelle. Nascosto e protetto è il senso, da lavorarci con dolorosa fatica o con amore. Ci sono colpi duri, se vuoi seguire Dio, colpi duri come quelli che spezzano la conchiglia per estrarre la perla, colpi che fanno cadere il fiore per aiutare il frutto a nascere, colpi che inchiodano alla croce per aprire alla profondità e alla passione del vivere. Gesù aveva parlato del suo farsi cibo per tutti e proprio questo era incomprensibile per i Giudei, che si immaginavano un Dio inaccessibile, potente e glorioso, non certo un Dio tanto intimo da diventare linfa nascosta. E quando l’annuncio del Maestro si allontana così tanto dalle mie convinzioni tutto diventa duro, oscuro, lontano: perché amare i nemici? Perché porgere l’altra guancia? Possibile che i ladri e le prostitute mi precederanno nel regno dei cieli? Perché spingere il cuore ad aprirsi su questa vertigine? Mi accorgo allora che la durezza è nel mio cuore che non riesce ad aprirsi alle Tue parole di tenerezza, che si ostina a volerti costantemente plasmare a mia immagine o a tentare di ridurti al mio piccolo e meschino tornaconto. Cosa avrei fatto se fossi stato tra loro in quei giorni? Da che parte sarei stato? Molto più facile voltare le spalle e tornarsene a casa, con appena un po’ di nostalgia per quelle parole così dolci, ma pure così capaci di scavare abissi. E Tu cosa hai provato nel vedere i discepoli, quelli che già da un po’ Ti seguivano ovunque, abbandonarti così? Hai visto come siamo fatti? Subito pronti a riconoscerti per un tozzo di pane da mettere sotto i denti, ma subito pronti anche a rinnegarti quando quel pezzo di pane mette in crisi la nostra vita. Me lo immagino come li guardavi mentre si allontanavano e si facevano via via più piccoli sulla strada. E il tuo sguardo ora si posa sui dodici, su quel gruppetto scalcagnato di pescatori che ti sei scelto, ma che non vuoi rendere schiavo: «Volete andarvene anche voi?» E c’è un attimo in cui tutto sembra fermarsi, un attimo, tra la tua domanda e la risposta di Pietro, sospeso come quando sta per accadere un miracolo. I tuoi occhi innamorati mi guardano, aspettano. Leggono nei miei occhi lo smarrimento, il disorientamento: se cerco la vita dove mai potrei andare? Lo vedi, non ho che domande per Te e solo una piccola, piccola fiducia.