Un Padre che intorno vuole figli non servi
La parabola più famosa, più bella, più spiazzante, si articola in quattro sequenze narrative. Prima scena. Un padre aveva due figli. Un incipit che causa subito tensione: nel Libro le storie di fratelli non sono mai facili, spesso raccontano di violenza e di menzogne. E sullo sfondo il dolore muto dei genitori, di questo padre così diverso: non ostacola la decisione del ragazzo; lo dà in sposo alla sua propria libertà, e come dote non dovuta cede la metà dei beni di famiglia. Secondo quadro. Il giovane inizia il viaggio della vita, ma le sue scelte sbagliate (sperperò il denaro vivendo da dissoluto) producono una perdita di umanità: il principe sognatore diventa servo, un porcaio che ruba ghiande per sopravvivere. Allora rientra in sé, e rivede la casa del padre, la sente profumare di pane. Ci sono persone nel mondo con così tanta fame che per loro Dio (o il padre) non può che avere la forma di un pane (Gandhi). Decide di tentare, non chiederà di essere il figlio di ieri, ma uno dei servi di adesso: trattami come un salariato! Non osa più cercare un padre, cerca solo un buon padrone. Non torna perché ha capito, torna per fame. Non per amore, ma per la morte che gli cammina a fianco paziente. Terza sequenza. Il ritmo della storia cambia, l'azione si fa incalzante. Il figlio si incammina e il padre, che è attesa eternamente aperta, lo vede che era ancora lontano e gli corre incontro. L'uomo cammina, Dio corre. L'uomo si avvia, Dio è già arrivato. E ha già perdonato in anticipo di essere come siamo, prima ancora che apriamo bocca. Il tempo dell'amore è prevenire, buttare le braccia al collo, fretta di carezze dopo la lunga lontananza. Non domanda: da dove vieni, ma: dove sei diretto? Non chiede: perché l'hai fatto? ma: vuoi ricostruire la casa? La Bibbia sembra preferire storie di ricomposizione a storie di fedeltà infrangibile. Non ci sono personaggi perfetti nella Bibbia, il Libro è pieno di gente raccolta dalle paludi, dalle ceneri, da una cisterna nel deserto, da un ramo di sicomoro, e delle loro ripartenze sotto il vento di Dio. L'ultima scena si svolge attorno a un altro figlio, che non sa sorridere, che non ha la musica dentro, che pesa e misura tutto con un cuore mercenario. Ma il padre, che vuole figli intorno e non servi, esce e lo prega, con dolcezza, di entrare: vieni, è in tavola la vita. E la modernità di un finale aperto. È giusto il padre della parabola? Dio è così? Così eccessivo, così tanto, così oltre? Sì, immensa rivelazione per cui Gesù darà la vita: Dio è amore, esclusivamente amore. L'amore non è giusto, è sempre oltre, centuplo, eccedenza. Ma è proprio questo il Dio di Gesù, il Dio che mi innamora.
La supplica del Signore: convertitevi o perirete
Cronaca dolente, di disgrazie e di massacri. Dio dove eri quel giorno? Quando la mia bambina è stata investita, dov'eri? Quando il mio piccolo è volato via dalla mia casa, da questa terra, come una colomba dall'arca, dove guardavi? Dio era lì, e moriva nella tua bambina; era là in quel giorno dell'eccidio dei Galilei nel tempio; ma non come arma, bensì come il primo a subire violenza, il primo dei trafitti, sta accanto alle infinite croci del mondo dove il Figlio di Dio è ancora crocifisso in infiniti figli di Dio. E non ha altra risposta al pianto del mondo che il primo vagito dell'alleluja pasquale. Se non vi convertirete, perirete tutti. Non è una minaccia, non è una pistola puntata alla tempia dell'umanità. È un lamento, una supplica: convertitevi, invertite la direzione di marcia: nella politica amorale, nell'economia che uccide, nell'ecologia irrisa, nella finanza padrona, nel porre fiducia nelle armi, nell'alzare muri. Cambiate mentalità, onesti tutti anche nelle piccole cose, e liberi e limpidi e generosi: perché questo nostro Titanic sta andando a finire diritto contro un iceberg gigantesco. Convertitevi, altrimenti perirete tutti. È la preghiera più forte della Bibbia, dove non è l'uomo che si rivolge a Dio, è Dio che prega l'uomo, che ci implora: tornate umani! Cambiate direzione: sta a noi uscire dalle liturgie dell'odio e della violenza, piangere con sulle guance le lacrime di quel bambino di Kiev, gridare un grido che non esce dalla bocca piena d'acqua, come gli annegati nel Mediterraneo. Farlo come se tutti fossero dei nostri: figli, o fratelli, o madri mie. Non domandarti per chi suona la campane/ Essa suona sempre un poco anche per te (J. Donne). Poi il Vangelo ci porta via dai campi della morte, ci accompagna dentro i campi della vita, dentro una visione di potente fiducia. Sono tre anni che vengo a cercare, non ho mai trovato un solo frutto in questo fico, mi sono stancato, taglialo. No, padrone! Il contadino sapiente, che è Gesù, dice: «No, padrone, no alla misura breve dell'interesse, proviamo ancora, un altro anno di lavoro e poi vedremo». Ancora tempo: il tempo è il messaggero di Dio. Ancora sole, pioggia e cure, e forse quest'albero, che sono io, darà frutto. Il Dio ortolano ha fiducia in me: l'albero dell'umanità è sano, ha radici buone, abbi pazienza. La pazienza non è debolezza, ma l'arte di vivere l'incompiuto in noi e negli altri. Non ha in mano la scure, ma l'umile zappa. Per aiutarti ad andare oltre la corteccia, oltre il ruvido dell'argilla di cui sei fatto, cercare più in profondità, nella cella segreta del cuore, e vedrai, troverai frutto, Dio ha acceso una lucerna, vi ha seminato una manciata di luce.
Il vivere la bellezza è liberare la luce in noi
Molte chiese orientali custodiscono sulle pareti un percorso di fede per immagini, alla fine del quale campeggia, o dipinta sulla cupola centrale nel punto più alto, o raffigurata come mosaico dorato a riempire di luce l'abside dietro l'altare, vertice e traguardo dell'itinerario, l'immagine della Trasfigurazione di Gesù sul Tabor, con i tre discepoli a terra, vittime di stupore e di bellezza. Un episodio dove in Gesù, volto alto e puro dell'uomo, è riassunto il cammino del credente: la nostra meta è custodita in una parola che in Occidente non osiamo neppure più pronunciare, e che i mistici e i Padri d'Oriente non temono di chiamare "theosis", letteralmente "essere come Dio", la divinizzazione. Qualche poeta osa: Dante inventa un verbo bellissimo "l'indiarsi" dell'uomo, in parallelo all'incarnarsi di Dio; oppure: "io non sono/ancora e mai/ il Cristo/ ma io sono questa/infinita possibilità". (D.M.Turoldo). Ci è data la possibilità di essere Cristo. Infatti la creazione intera attende la rivelazione dei figli di Dio, attende che la creatura impari a scollinare oltre il proprio io, fino a che Cristo sia tutto in tutti. Salì con loro sopra un monte a pregare. La montagna è il luogo dove arriva il primo raggio di sole e vi indugia l'ultimo. Gesù vi sale per pregare come un mendicante di luce, mendicante di vita. Così noi: il nostro nascere è un "venire alla luce"; il partorire delle donne è un "dare alla luce", vivere è un albeggiare continuo. Nella luce, che è il primo, il più antico simbolo di Dio. Vivere è la fatica, aspra e gioiosa, di liberare tutta la luce sepolta in noi. Rabbì, che bello essere qui! Facciamo tre capanne. L'entusiasmo di Pietro, la sua esclamazione stupita: che bello! ci mostrano chiaramente che la fede per essere visibile e vigorosa, per essere pane e visione nuova delle cose, deve discendere da uno stupore, da un innamoramento, da un 'che bello!' gridato a pieno cuore. È bello per noi stare qui. Esperienza di bellezza e di casa, sentirsi a casa nella luce, che non fa violenza mai, si posa sulle cose e le accarezza, e ne fa emergere il lato più bello. "Tu sei bellezza", pregava san Francesco, "sei un Dio da godere, da gustare, da stupirsene, da esserne vivi". È bello stare qui, stare con Te, ed è bello anche stare in questo mondo, in questa umanità malata eppure splendida, barbara e magnifica, nella quale però hai seminato i germi della tua grande bellezza. Questa immagine del Tabor di luce deve restare viva nei tre discepoli, e in tutti noi; viva e pronta per i giorni in cui il volto di Gesù invece di luce gronderà sangue, come allora fu nel Giardino degli Ulivi, come oggi accade nelle infinite croci dove Cristo è ancora crocifisso nei suoi fratelli. Madre della grande speranza.
EMERGENZA UCRAINA!
Caritas Tarvisina sostiene la RACCOLTA FONDI avviata da Caritas Italiana a beneficio di Caritas Ucraina e delle Caritas dei paesi confinanti, che servirà a contribuire alla fornitura di beni di prima necessità.
E' possibile effetturare una donazione diretta (causale “Europa/Ucraina”) al seguente IBAN:
IT05 G 08399 12000 000000332325,
intestato a Diocesi di Treviso – Caritas Tarvisina.
Per usufruire delle detrazioni fiscali previste dalla legge si può effetturare la donazione al nostro braccio operativo Servitium Emiliani ONLUS,
al seguente IBAN: IT55 H 08399 12000 000000318111
Non raccogliamo generi alimentari, coperte, farmaci o qualsiasi altro prodotto da inviare come aiuto umanitario, in quanto non è possibile garantirne la consegna alla luce della situazione attuale.
Per aggiornamenti: www.caritastarvisina.it
Vedi volantino nella sezione FOGLIETTO PARROCCHIALE
La libertà di scegliere è chiamata alla vita
Come Gesù, siamo tutti posti davanti alla fatica aspra e liberante di scegliere tra umano e disumano, tra più vita e meno vita. "Scegli" è l'imperativo di libertà che apre tutta la sezione della Legge antica: Io pongo davanti a te il bene e la vita, il male e la morte. Scegli dunque la vita. (Deut 30,15). E non suona come un imperativo, ma come una preghiera di Dio ai suoi figli, una chiamata alla vita. Le tentazioni e le scelte di Gesù nel deserto ridisegnano il mondo delle relazioni umane: il rapporto con me stesso e con le cose (pietre o pane), con Dio e con gli altri (tutto sarà tuo). Dì a questa pietra che diventi pane! Non di solo pane, l'essere umano vive anche della contemplazione delle pietre del mondo, e allora vede che "nel cuore della pietra Dio sogna il suo sogno e di vita la pietra si riveste" (G. Vannucci). Perfino le pietre sono "sillabe del discorso di Dio. Il divino e l'umano si incontrano nel più piccolo dettaglio della veste senza cuciture della creazione di Dio, persino nell'ultimo granello di polvere del nostro pianeta" (Laudato Si' 9). Il pane è un bene, un valore indubitabile, ma Gesù non ha mai cercato il pane a suo vantaggio, si è fatto pane a vantaggio di tutti. E risponde giocando al rialzo, offrendo più vita: Non di solo pane vivrà l'uomo. Se è sazio di solo pane, l'uomo muore. Nella seconda tentazione il diavolo rilancia: il mondo è mio, se ti prostri davanti a me, tutto questo sarà tuo. Lo spirito del male instaura un mercato con l'uomo, un mercimonio. Esattamente l'opposto dello stile con cui Dio agisce: lui non fa mai mercato dei suoi doni, dona amore senza clausole e senza condizioni, un bene mai mercenario. Dio non può dare semplici cose, perché "non può dare nulla di meno di se stesso" (Meister Eckart), ma "dandoci se stesso ci dà tutto" (Caterina da Siena). La terza tentazione è una sfida aperta a Dio: Buttati, così vedremo uno stormo di angeli in volo... Un bel miracolo, la gente ama i miracoli, ti verranno dietro. Il diavolo è seduttivo, mette la maschera dell'amico, come per aiutare Gesù a fare meglio il messia. E in più la tentazione è fatta con la Bibbia in mano (sta scritto...). La risposta: non tenterai il Signore tuo Dio. Attraverso ciò che sembra il massimo della fede nella provvidenza, tu stai facendo la caricatura della fede, la riduci a pura ricerca del tuo vantaggio. Tu non cerchi Dio, cerchi solo il tuo profitto. Vuoi vincere il mondo con la croce? Non servirà, dice il diavolo. Assicurargli invece pane, potere ed effetti speciali, e ti seguirà. Ma Gesù non vuole vincere nessuno, lui vuole liberare. Attende liberi figli che tornino ad amare Dio da innamorati e non da sottomessi.
Dare e avere. I conti di Dio non sono come i nostri.
Domenica scorsa Gesù aveva proiettato nel cielo della pianura umana un sogno: beati voi poveri, guai a voi ricchi; oggi sgrana un rosario di verbi esplosivi. Amate è il primo; e poi fate del bene, benedite, pregate. E noi pensiamo: fin qui va bene, sono cose buone, ci sta. Ma quello che mi scarnifica, i quattro chiodi della crocifissione, è l'elenco dei destinatari: amate i vostri nemici, i vostri odiatori, gli infamanti, gli sparlatori. Gli inamabili. Poi Gesù, per sgombrare il campo da ogni equivoco, mi guarda negli occhi, si rivolge a me, dice al singolare: “tu”, dopo il “voi” generico. E sono altre quattro cicatrici da togliere il fiato: porgi l'altra guancia, non rifiutare, dà, non chiedere indietro. Amore di mani, di tuniche, di pelle, di pane, di gesti. E di nuovo ti costringe a guardare, a cercare chi non vuoi: chi ti colpisce, chi ruba il tuo, il petulante furbo che chiede sempre e non dà mai. Nell'equilibrio mondano del dare e dell'avere, Gesù introduce il disequilibrio divino: date; magnificamente, dissennatamente, illogicamente date; porgete, benedite, prestate, ad amici e nemici, fate il primo passo. Come fa Dio. Questo Vangelo rischia di essere un supplizio, la nostra tortura, una coercizione a tentare cose impossibili. E così si apre la strada a quell'ipocrisia che ci demolisce. Nessuno vivrà questo Vangelo a colpi di volontà, neppure i più bravi tra noi. Ma solo attingendo alla sorgente: siamo nel cuore di Dio, questa è la vita di Dio. In cui radicarsi. Di cui essere figli. Poi Gesù indica la seconda origine di tutti questi verbi di fuoco: ciò che volete che gli uomini facciano a voi, fatelo voi a loro. Come una capriola logica, rispetto a ciò che ha appena detto, ma che è bellissima: non volare lontano, torna al cuore, al desiderio, a tutto ciò che vuoi per te: abbiamo tutti un disperato bisogno di essere abbracciati, di essere perdonati, di uno almeno che ci benedica, di una casa dove sentirci a casa, di contare sul mantello di un amico. Ho bisogno di aprire le braccia senza paura e senza misura. Ciò che desideri per te, donalo all'altro. Altrimenti saprai solo prendere, possedere, violare, distruggere. L'amore non è un optional. È necessario per vivere, e per farlo insieme. In quelle parole, penetranti come chiodi, è nascosta la possibilità perché un futuro ci sia per il mondo. Nell'ultimo giorno il Padre domanderà ad Abele: cosa hai fatto di tuo fratello Caino? Ho perdonato, gli ho dato il mantello, ho spezzato il mio pane. La vittima che si prende cura del violento e insieme forzano l'aurora del Regno. Solo un sogno? Vedrai, verranno a mangiare dalle tue mani il pane dei sogni di Dio. È già accaduto. Accadrà ancora.
Dio regala gioia a chi costruisce pace
Se non siamo come sonnambuli, questo Vangelo ci dà la scossa. «Sono venuto a portare il lieto annuncio ai poveri», aveva detto nella sinagoga, eco della voce di Isaia. Ed eccolo qui, il miracolo: beati voi poveri, Il luogo della felicità è Dio, ma il luogo di Dio è la croce, le infinite croci degli uomini. E aggiunge un'antitesi abbagliante: non sono i poveri il problema del mondo, ma i ricchi: guai a voi ricchi. Sillabe sospese tra sogno e miracolo, che erano state osate, prima ancora che da Gesù, da Maria nel canto del Magnificat: ha saziato gli affamati di vita, ha rimandato i ricchi a mani vuote (Lc 1,53). Se Gesù avesse detto che la povertà è ingiusta, e quindi semplicemente da rimuovere, il suo sarebbe stato l'insegnamento di un uomo saggio attento alle dinamiche sociali (R. Virgili). Ma quell'oracolo profetico, anzi più-che-profetico, quel “beati” che contiene pienezza, felicità, completezza, grazia, incollato a persone affamate e in lacrime, a poveracci, disgraziati, ai bastonati dalla vita, si oppone alla logica, ribalta il mondo, ci obbliga a guardare la storia con gli occhi dei poveri, non dei ricchi, altrimenti non cambierà mai niente. E ci saremmo aspettati: beati voi perché ci sarà un capovolgimento, un'alternanza, diventerete ricchi. No. Il progetto di Dio è più profondo. Il mondo non sarà reso migliore da coloro che hanno accumulato più denaro. «Il vero problema del mondo non è la povertà, è la ricchezza! La povertà vuol dire libertà del cuore dai possessi; libertà come pace con le cose, pace con la terra, fonte di ogni altra pace. Il ricco invece è un uomo sempre in guerra con gli elementi, un violento, un usurpatore, il primo soggetto di disordine del mondo. Non sono i poveri i colpevoli del disordine, non è la povertà il male da combattere; il male da combattere è la ricchezza. È l'economia del mondo ad esigerlo: senza povertà non c'è salvezza rispetto al consumo delle fonti energetiche, non c'è possibilità di pane per tutti, non rapporto armonioso con la vita, non fraternità, non possibilità di pace. Appunto, non c'è beatitudine e felicità per nessuno. Perché non v'è pace con la terra, con le cose, con la natura. Non c'è rispetto per le creature» (David Maria Turoldo). Beati voi... Il Vangelo più alternativo che si possa pensare. Manifesto stravolgente e contromano; e, al tempo stesso, vangelo amico. Perché le beatitudini non sono un decreto, un comando da osservare, ma il cuore dell'annuncio di Gesù: sono la bella notizia che Dio regala vita a chi produce amore, Dio regala gioia a chi costruisce pace. In esse è l'inizio della guarigione del cuore, perché il cuore guarito sia l'inizio della guarigione del mondo.
Un sogno divino per piccoli imprenditori
Comincia così la storia di Gesù con i suoi discepoli: dalle reti vuote, dalle barche tirate in secca. Linguaggio universale e immagini semplicissime. Non dal pinnacolo del tempio, ma dal pulpito di una barca a Cafarnao. Non dal santuario, ma da un angolo umanissimo e laico. E, in più, da un momento di crisi. Il Signore ci incontra e ci sceglie ancora, come i primi quattro, forse proprio per quella debolezza che sappiamo bene. Fingere di non avere ferite, o una storia accidentata, ci rende commedianti della vita. Se uno ha vissuto, ha delle ferite. Se uno è vero, ha delle debolezze e delle crisi. E lì ci raggiunge la sua voce: Pietro, disubbidisci alle reti vuote, ubbidisci a un sogno. Gli aveva detto: Allontanati da me, perché sono un peccatore. Ma lui non se n'è andato e sull'acqua del lago ha una reazione bellissima. Il grande Pescatore non conferma le parole di Pietro, non lo giudica, ma neppure lo assolve, lo porta invece su di un altro piano, lontano dallo schema del peccato e dentro il paradigma del bene futuro: sarai pescatore di uomini. Non temere il vuoto di ieri, il bene possibile domani conta di più. Gesù rialza, dà fiducia, conforta la vita e poi la incalza verso un di più: d'ora in avanti tu sarai... ed è la vita che riparte. Quando parla a Pietro, è a me che parla. Nessuno è senza un talento, senza una barchetta, una zattera, un guscio di noce. E Gesù sale anche sulla mia barca. Sale sulla barca della mia vita che è vuota, che ho tirato in secca, che quando è in alto mare oscilla paurosamente, e mi prega di ripartire con quel poco che ho, con quel poco che so fare, e mi affida un nuovo mare. E il miracolo non sta nella pesca straordinaria e nelle barche riempite di pesci; non è nelle barche abbandonate sulla riva, ancora cariche del loro piccolo tesoro. Il miracolo grande è Gesù che non si lascia impressionare dai miei difetti, non ha paura del mio peccato, e vuole invece salire sulla mia barca, mio ospite più che mio signore. E, abbandonato tutto, lo seguirono. Che cosa mancava ai quattro per convincerli a mollare barche e reti per andare dietro a quel giovane rabbi dalle parole folgoranti? Avevano il lavoro, una piccola azienda di pesca, una famiglia, la salute, il Libro e la sinagoga, tutto il necessario per vivere. Eppure qualcosa mancava. E non era una morale più nobile, non dottrine più alte. Mancava un sogno. Gesù è il custode dei sogni dell'umanità. Offre loro il sogno di cieli nuovi e terra nuova, il cromosoma divino nel nostro Dna, fratelli tutti, una vita indistruttibile e felice. Li prende e li fa sconfinare. Gli ribalta il mondo. E i pescatori cominciano ad ubbidire agli stessi sogni di Dio.
Non i profeti ma gli amanti salveranno il mondo
Nazaret passa in fretta dallo stupore all'indignazione, dagli applausi a un raptus di violenza. Tutto parte da una richiesta: «Fai anche qui i miracoli di Cafarnao!» . Quello che cercano è un bancomat di miracoli fra i vicoli del villaggio, un Dio che stupisca con effetti speciali, che risolva i problemi e non uno che cambi il cuore. Non farò miracoli qui; li ho fatti a Cafarnao e a Sidone e sulla pelle del lebbroso: il mondo è pieno di miracoli, eppure non bastano mai. Li aveva appena incantati con il sogno di un mondo nuovo, lucente di libertà, di occhi guariti, di poveri in festa, e loro lo riconducono alle loro attese, a un Dio da adoperare a proprio profitto, nei piccoli naufragi quotidiani. Ma il Dio di Gesù non si sostituisce a me, non occupa, non invade, non si impossessa. È un Dio di sconfinamenti, la sua casa è il mondo: e la sinagoga si popola di vedove forestiere e di generali nemici. Inaugurando così un confronto tra miracolo e profezia, tra il Dio spiazzante della Parola e il Dio comodo dei problemi risolti. Eppure, che cosa c'è di più potente e di più bello di uno, di molti profeti, uomini dal cuore in fiamme, donne certe di Dio? Come gli abitanti di Nazaret, siamo una generazione che ha sperperato i suoi profeti, che ha dissipato il miracolo di tanta profezia che lo Spirito ha acceso dentro e fuori la Chiesa. I nomi sono tanti, li conoscete tutti. «Non è costui il figlio di Giuseppe?» Che la profezia abbia trovato casa in uno che non è neanche un levita o uno scriba, che ha le mani callose, come le mie, uno della porta accanto, che ha più o meno i problemi che ho io; che lo Spirito faccia del quotidiano la sua eternità, che l'infinito sia alla latitudine di casa, questo ci pare poco probabile. Belli i profeti, ma neanche la profezia basta. Ciò che salverà il mondo non sono Elia o Eliseo. Non coloro che hanno una fede da trasportare le montagne, ma coloro che sanno trasportare il loro cuore verso gli altri e per loro. Non i profeti, ma gli amanti. E se la profezia è imperfetta, se è per pochi, l'amore è per tutti. L'unica cosa che rimane quando non rimane più nulla. Allora lo condussero sul ciglio del monte per gettarlo giù. Ma come sempre negli interventi di Dio, improvvisamente si verifica nel racconto lo strappo di una porta che si apre, di una breccia nel muro, un "ma": ma Gesù passando in mezzo a loro si mise in cammino. Non fugge, non si nasconde, passa in mezzo; aprendosi un solco come di seminatore o di mietitore, mostrando che si può ostacolare la profezia, ma non bloccarla. "Non puoi fermare il vento, gli fai solo perdere tempo" (F. De Andrè). Non facciamo perdere tempo al vento di Dio.
Il programma di Gesù: portare gioia e libertà
Tutti gli occhi erano fissi su di lui. Erano appena risuonata la voce di Isaia: parole così antiche e così amate, così pregate e così desiderate, così vicine e così lontane. Gesù ha cercato con cura quel brano nel rotolo: conosce bene le Scritture, ci sono mille passi che parlano di Dio, ma lui sceglie questo, dove l'umanità è definita con quattro aggettivi: povera, prigioniera, cieca, oppressa. Allora chiude il libro e apre la vita. Ecco il suo programma: portare gioia, libertà, occhi guariti, liberazione. Un messia che non impone pesi, ma li toglie; che non porta precetti, ma orizzonti. E sono parole di speranza per chi è stanco, è vittima, non ce la fa più. Dio riparte dagli ultimi della fila, raggiunge la verità dell'umano attraverso le sue radici ammalorate. Adamo è povero più che peccatore; è fragile prima che colpevole; siamo deboli ma non siamo cattivi, è che abbiamo le ali tarpate e ci sbagliamo facilmente. Nel Vangelo mi sorprende e mi emoziona sempre scoprire che in quelle pagine accese si parla più di poveri che di peccatori; più di sofferenze che di colpe. Non è moralista il Vangelo, è liberatore. Dio ha sofferto vedendo Adamo diventare povero, cieco, oppresso, prigioniero, e un giorno non ha più potuto sopportarlo, ed è sceso, ha impugnato il seme di Adamo, ha intrecciato il suo respiro con il nostro respiro, i suoi sogni con i nostri. È venuto ed ha fatto risplendere la vita, ha messo canzoni nuove nel cuore, frantumi di stelle corrono nelle nostre vene. Perché Dio non ha come obiettivo se stesso, siamo noi lo scopo di Dio. Il catechismo sovversivo, stravolgente, rivoluzionario di Gesù: non è l'uomo che esiste per Dio ma è Dio che esiste per l'uomo. E considera ogni povero più importante di se stesso. Io sono quel povero. Fiero per fierezza d'amore: nessuno ha un Dio come il nostro. E poi Gesù spalanca ancora di più il cielo, delinea uno dei tratti più belli del volto del Padre: «Sono venuto a predicare un anno di grazia del Signore», un anno di grazia, di cui Gesù soffia le note negli inferi dell'umanità (R. Virgili); un anno, un secolo, mille anni, una storia intera fatta solo di benevolenza, a mostrare che Dio non solo è buono, ma è soltanto buono. «Sei un Dio che vivi di noi» (Turoldo). E per noi: «Non ci interessa un divino che non faccia fiorire l'umano. Un divino cui non corrisponda la fioritura dell'umano non merita che ad esso ci dedichiamo»" (D. Bonhoffer). Forse Dio è stanco di devoti solenni e austeri, di eroi dell'etica, di eremiti pii e pensosi, forse vuole dei giullari felici, alla san Francesco, felici di vivere. Occhi come stelle. E prigionieri usciti dalle segrete che danzano nel sole. (M. Delbrêl).
Sul Giordano Gesù è nido della colomba del cielo
Il popolo era in attesa e tutti si domandavano, riguardo a Giovanni, se non fosse lui il Cristo. Siamo così, creature di desiderio e di attesa, con dentro, sulla via del cuore, questo “tendere -a”, appassionato e attento, dato che il presente non basta a nessuno. L’attesa è così forte che fa nascere sentieri, e la gente è spinta fuori, sulla strada. Lascia il tempio e Gerusalemme dalle belle pietre, per cercare un luogo di sabbia e acqua, a decine di chilometri, dove si alzava una voce libera come il vento del deserto. Sei tu il Messia? E Giovanni scende dall’altare delle attese della gente per dire: no, non sono io. Viene dopo di me colui che è più forte di me». In che cosa consiste la sua forza? Lui è il più forte perché ha il fuoco, perché parla al cuore del popolo, come aveva profetizzato Osea: la condurrò al deserto e là parlerò al suo cuore. Due soli versetti raccontano il Battesimo di Gesù, quasi un inciso, in cui però il grande protagonista è lo Spirito Santo. Sul Giordano la colomba del cielo cerca il suo nido, e il suo nido è Gesù. Lo Spirito ancora adesso cerca il suo nido, e ognuno di noi è nido della colomba di Dio. Gesù stava in preghiera, e il cielo si aprì. Bellissima questa dinamica causa-effetto. Gesù sta in preghiera, e la meravigliosa risposta di Dio è di aprire il cielo. E non è vuoto e non è muto. Per ogni nostra preghiera la dinamica è sempre la stessa: una feritoia, una fenditura che si apre nel cielo chiuso e ne scende un volo di parole: Tu sei il Figlio mio, l’amato, in te ho posto il mio compiacimento. Ogni preghiera non fa che ripetere incessantemente questo: «Parlami / aspetto a carne aperta / che mi parli./ Noi non siamo qui per vivere / ma perché qualcuno / deve parlarci» (Franco Arminio). E la prima parola è “Figlio”. La “parola” scende e si fa, nel deserto, e qui, un “figlio”. Dio è forza di generazione, che come ogni essere genera secondo la propria specie. Siamo specie della sua specie, abbiamo Dio nel sangue e nel respiro. Posta in principio a tutte, “figlio” è parola che sta all’inizio perché sta anche alla fine di tutto. “Tu sei amato” è la seconda parola. Di immeritato amore, asimmetrico, unilaterale, incondizionato. Qui è posto il fondamento di tutta la legge. “Tu sei amato” è il fondamento; “tu amerai” è il compimento. Chi esce da questo, amerà il contrario della vita. Mio compiacimento è la terza parola, l’ultima. Un termine che non ci è abituale, eppure parola lucente, pulsante: c’è in Dio una vibrazione di gioia, un fremito di piacere; non è un essere freddo e impersonale, senza emozioni, ma un Padre apritore di cieli, felice di essere padre, in festa davanti a ognuno dei suoi figli.
Auguri per un Natale diverso!
Speravamo che quest’anno potessimo dimenticare il problema Coronavirus. Invece siamo alle prese con una situazione simile all’anno scorso. Ci ritroviamo “costretti” dalle circostanze a concentrarci sull’essenziale. Proviamoci! Forse mai come quest’anno sentiamo il bisogno di una compagnia. La regola del distanziamento ci ha fatto riscoprire l’esigenza insopprimibile delle relazioni e abbiamo compreso più profondamente l’importanza di un abbraccio, di una stretta di mano, di un bacio. Nell’incarnazione Dio si fa vicino, nostro compagno di viaggio. Così l’umano è abitato da Dio, da una presenza d’Amore che ha messo la sua tenda dentro di noi, nei nostri cuori. Le persone, ciascuna nella sua singolarità e tutte insieme, diventano abitazione di Dio e sua immagine. L’uomo e la donna, il bambino, il giovane e il vecchio, possono essere guardati e amati come immagine di Dio, sua abitazione e luogo in cui incontrarlo. Noi siamo l’abitazione di Dio! Torniamo all’essenziale: riscopriamo le cose semplici. Il mistero del Natale porti Speranza a tutta la nostra comunità: a quanti vivono nel dolore e nella malattia; a quanti sono stati colpiti dalla crisi economica; agli anziani che più di altri risentono delle restrizioni dovute alla pandemia; ai ragazzi che hanno visto ridursi a zero ogni possibilità di socializzazione. Buon Natale di vero cuore a tutti voi! Il bambino di Betlemme, luce per il mondo, porti la pace vera nelle vostre case, giunga abbondante a chi ha maggiormente bisogno di consolazione e di speranza.
Don Daniele Vettor
Preghiera per l'unità dei cristiani
Dal 18 al 25 di gennaio ricorre la settimana di preghiera per l’unità dei cristiani dal titolo:“In oriente abbiamo visto apparire la sua stella e siamo venuti qui per onorarlo” (Matteo 2, 2).
È in casa che si impara l’arte di amare, e di essere felici
La Bibbia è popolata da famiglie, da generazioni, da storie di amore e di crisi familiari, fin dalla prima pagina, dove entra in scena la famiglia di Adamo ed Eva, con il suo carico di violenza, ma anche con la forza della vita che continua (Amoris laetitia,1). La Bibbia è una biblioteca sull'arte e sulla fatica di amare, è il racconto dell'amore, vivo e potente, incarnato e quotidiano, visibile o segreto. Lo è anche nel Vangelo di oggi: storia di una crisi familiare, di un adolescente difficile, di due genitori che non riescono a capire che cosa ha in testa. Figlio, perché ci hai fatto stare in angoscia? È il racconto di una famiglia che alterna giorni sereni tranquilli e altri drammatici, come accade in tutte le famiglie, specie con i figli adolescenti. Ma che sa fare buon uso delle crisi, attraverso un dialogo senza risentimenti e senza accuse. Figlio perché? L'interesse di Maria non è rivolto al rimprovero, non accusa, non giudica, non si deprime perché il figlio l'ha fatta soffrire, ma cerca di capire, di comprendere, di accogliere una diversità difficile. Non sapevate che devo occuparmi delle cose del Padre mio? I nostri figli non sono nostri, appartengono al Signore, al mondo, alla loro vocazione, ai loro sogni. Un figlio non può, non deve strutturare la sua vita in funzione dei genitori. È come fermare la ruota della creazione. Ma essi non compresero... e tuttavia nessun dramma o ricatto emotivo, nessuna chiusura del dialogo. Un figlio non è sempre comprensibile, ma è sempre abbracciabile. Scesero insieme a Nazaret. Si riparte, anche se non tutto è chiaro; si persevera dentro l'eco di una crisi, meditando e custodendo nel cuore gesti, parole e domande finché un giorno non si dipani il filo d'oro che tutto illuminerà e legherà insieme. Gesù partì con loro, tornò a casa e stava loro sottomesso. C'è incomprensione, c'è un dolore che pesa sul cuore, eppure Gesù torna con chi non lo capisce. E cresce dentro quella famiglia santa ma non perfetta, santa e limitata. Sono santi, sono profeti, eppure non si capiscono tra loro. E noi ci meravigliamo di non capirci, qualche volta, nelle nostre case? Tutte diversamente imperfette, ma tutte capaci di far crescere. Gesù lascia i maestri della Legge, va con Giuseppe e Maria, maestri di vita: al tempio Dio preferisce la casa, luogo del primo e più importante magistero, dove i figli imparano l'arte di essere felici: l'arte di amare. Lì Dio si incarna, mi sfiora, mi tocca; lo fa nel volto, nei gesti, nello sguardo di ognuno che mi vuole bene, e quando so dire loro: non avere paura, io ci sono e mi prenderò cura della tua felicità. È Lui regala gioia a chi produce amore.